Osservo il punto della mia vita in cui sono giunto; guardo da dove ero partito e quali ostacoli ho dovuto superare; individuo quale lezione ho imparato e scelgo il prossimo obiettivo verso cui desidero puntare.
Regolarmente ormai da qualche anno, mi sorprendo spesso in questo tipo di valutazioni, ritrovandomi ad analizzare ogni aspetto della mia vita: la famiglia, il lavoro, la situazione economica, quella della casa, i legami affettivi…
In Italia, non avevo questa abitudine, forse perché vedevo sempre tutto uguale e piatto. Semmai, dovevo prestare attenzione più a non peggiorare la mia situazione. In tal modo, spendevo tutte le mie energie nello sforzo di conservare lo status quo del minimo sindacale, azzerando ogni velleità di miglioramento.
Non fraintendetemi: non si tratta dell’ennesimo post “dell’espatriato di turno che sta sputando veleno sull’Italia”.
Wrong way.
Come già scritto più volte in precedenza, su questo e sul mio blog, così come nel mio libro, io amo il mio Paese, e qui lo ribadisco ancora.
Racconto soltanto la mia esperienza soggettiva, in cui forse qualcuno potrà ritrovarsi, altri no. Niente di personale con l’Italia e/o gli italiani, quindi. Non intendo generalizzare, e altrettanto mi auguro che chi leggerà i miei post non sia spinto a farlo per questo.
Se mi mettessi ad elencare le tante soddisfazioni personali raggiunte durante questi anni americani, sul lavoro, o in ambito famigliare, risulterei noioso.
Mi focalizzerò, invece, su ciò che sento mi sta chiedendo attenzione con una certa urgenza, e che mai come ora, in tempi di pandemia, sta emergendo in me come uno degli aspetti più delicati e importanti nel bilancio di un expat: la gestione del rapporto con i propri affetti rimasti in Italia. Riflessioni scribacchiate in “Pit telefono casa“.
Pietro, Provenzano’s blog