Quando parliamo di On the Road non possiamo non pensare alle Scenic Byway americane, oppure a quelle strade dritte e infinite che amiamo tanto noi malati d’America. Ma se devo pensare a una strada che più di tutte incarna nell’immaginario collettivo il viaggio “made in USA” la prima che mi viene in mente è la Route 66, e non è un caso.
Questa strada nata nel lontano 1926 dalla mente geniale di Cyrus Avery è stata la prima Highway americana interamente asfaltata, anche se dovette attendere fino al 1938 per diventarlo. I cartelli che ne indicavano la percorrenza furono installati nel 1927 ben un anno dopo la sua apertura, questo fa ben capire le difficoltà che incontrarono i vari stati per poterla completare.
Con le sue 2448 miglia è stata la strada più amata dagli americani fino alla sua dismissione avvenuta nel giugno del 1985, ma la cosa incredibile è che la Mother Road non è morta anche se scomparsa dalle carte stradali ufficiali, infatti ancora oggi continua ad accompagnare i viaggiatori attraverso 8 stati da Chicago a Santa Monica.
Percorreva vuol dire vivere emozioni uniche attraversando Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, New Messico, Arizona e California, un museo a cielo aperto con i suoi diner, le sue stazioni di servizio e i suoi motel. Un viaggio nel tempo affascinante ed emozionante, capace di portare il viaggiatore dentro mitiche pellicole cinematografiche, serie TV e video musicali, tutti media che hanno aumentato ancora di più la fama di questo polveroso nastro di asfalto.
In pochi sanno però che non è stata la prima highway americana, infatti anni prima ne fu realizzata un’altra che partiva da Times Square, nel cuore di New York City, per arrivare fino a San Francisco, ma questa ve la racconterò in un prossimo articolo, per ora vi consiglio di approfondire la Route 66 con questo articolo sul mio blog e sognare di percorrerla a bordo di una vecchia Cadillac anni ’50 o di una luccicante e rumorosa Harley Davidson.
Da quando ho iniziato a frequentare colui che poi sarebbe diventato mio marito, quello del college football è sempre stato un rumore di sottofondo nella mia vita.
Il football è uno sport che non mi ha mai particolarmente entusiasmata, dei ragazzi venerati come degli dei in terra che si inseguono, si ammucchiano, e spesso si fanno male, tutto nel tentativo di proteggere una palla ovale e portarla dall’altra parte del campo. Come tante altre persone anche io ho seguito annualmente il Super Bowl, la finale del campionato professionistico, solo per le pubblicità inedite e per lo spettacolo musicale che si tiene a metà partita. Sentivo parole come “touchdown”, “linebacker”, “Hail Mary pass”, “Heisman Trophy” galleggiare nell’aria ma, oltre ad una conoscenza passiva dell’argomento, non sono mai andata oltre. Poi un giorno ho avuto l’occasione di vedere di persona una partita allo stadio…
Sarà riuscita questa nuova esperienza a trasformarmi in una sportiva o sarò rimasta, come mio costume, l’antropologa mancata che ama osservare i comportamenti delle persone?
“Ma quali sono stati i tuoi Culture Shock quando sei arrivato?”
Spesso stupisce come ci siano cose in comune tra chi vive in paesi che possano sembrare molto diversi fra loro. Altre volte, invece, ci stupiamo di come in paesi che magari pensiamo simili all’Italia altrettanto possano generare la “botta” da culture shock.
Penso capiti un po’ a tutti appena trasferiti. Il culture shock. Per quanto uno si prepari prima, parli con persone già in loco con background simili al proprio, si leggano libri e guide non si è mai completamente pronti. Il culture shock è sempre lí in agguato e prima o poi arriva.
Spesso poi sono le piccole cose a cui uno non pensa che ci colpiscono. Alla fine sono spesso i piccoli gesti, le abitudini di ogni giorno e cose così che riempiono le nostre giornate. Tante di queste cose sono così radicati nelle nostre abitudini, nella cultura del luogo in cui abbiamo vissuto che spesso vengono date per scontante. Ma scontate non sono, soprattuto se magari ci si sposta a vivere a migliaia di miglia ( o chilometri) da “casa”.
Con il tempo tanti shock, sorprese che ci colpiscono nei primi tempi del trasferimento diventano parte integrante delle nostre nuove routine e iniziano a loro volta ad essere dati magari scontati o quanto meno non ci colpiscono più cosí tanto. Quello che mi stupisce è come alcuni di essi diventino appunto aspetti scontati a cui magari non si pone troppa attenzione e poi attirino nuovamente ed inaspettatamente la nostra attenzione. Magari un giorno all’improvviso un dettaglio, un evento particolare riportano su questi culture shock iniziali la nostra attenzione o arriviamo al punto di stupirci di come in precedenza avessi abitudini e consuetudini diverse.
A voi è capitato magari a seguito di un trasferimento o un viaggio in un altro paese? Cosa ha colpito la vostra attenzione? Cosa non vi sareste aspettati?
Mi sono trasferita a Los Angeles due anni e mezzo fa, dopo 4 anni e mezzo vissuti intensamente a San Francisco. E passare dal nord della California al sud è stata una bella transizione… Non si è trattato di ricominciare tutto da capo, eh, di orientarsi di nuovo e confrontarsi con una nuova cultura, com’è stato nel passaggio dall’Italia agli Stati Uniti 7 anni fa, ma in ogni caso, si è trattato di un bel cambiamento. San Francisco non è Los Angeles. E ci è voluto un po’ di tempo per ambientarsi! E, onestamente, non credo ancora di essermi completamente ambientata.
Di certo, Los Angeles mi ha offerto opportunità lavorative nel mio campo, quello della storia dell’arte, che a San Francisco non avrei potuto neanche sognare. E mi ha dato anche l’opportunità di avere accesso a meravigliosi musei e istituzioni culturali, come il Getty Museum o la Huntington Library, che vantano ricchissime collezioni di arte e manoscritti miniati, di cui mi occupo per lavoro. E questi musei, al di là del materiale di lavoro che mi hanno offerto, mi hanno anche dato l’occasione per “respirare aria fresca” se così si può dire, in luoghi che sanno di storia, di arte e di bellezza.
Diversamente dall’Italia dove ogni viuzza, ogni centro storico, ogni palazzo offre agli occhi uno spettacolo da rimirare, qui in California, e specialmente qui a Los Angeles, la bellezza si fa desiderare un po’. La bellezza si nasconde nei luoghi della cultura, in queste prestigiose istituzioni che accolgono ogni giorno migliaia di visitatori. Ed è evidente che per godere di tale bellezza, bisogna andarla a cercare, inseguirla, non darla per scontata nella vita quotidiana e quindi correre dietro a quel bisogno che io definisco un bisogno di bellezza che guida la mia vita. Senza bellezza negli occhi, io, che sono una storica dell’arte, proprio non potrei stare. Ho sete di vedere cose belle. E così, è proprio in posti come il Getty o la Huntington Library di Pasadena dove adoro trascorrere le mie giornate lavorative, ispirata dalla bellezza di questi luoghi e dalle loro collezioni.
In questo post vi racconto della mia ricerca della bellezza a Los Angeles, una bellezza di cui ho bisogno nel mio quotidiano californiano….
Quando arrivi negli USA, che tu voglia affittare casa o la voglia comprare, ti troverai a fare i conti con le diverse caratteristiche delle case americane, rispetto a quelle italiane.
Che nei bagni non ci sia il bidet, lo sanno tutti, ma che i muri sono fatti di cartongesso lo sapevate?
Provate a mettere un quadro sulla parete con un chiodo, come facevate benissimo in Italia….no, non sta su. Ci vogliono tasselli speciali.
Che la struttura stessa, almeno qui dove non ci sono problemi di terremoti, sia fatta anch’essa di legno, lo sapevate?
È incredibile come le case vengano su come funghi. Ormai i sobborghi crescono sempre di più nelle periferie. Le case vengono costruite in agglomerati chiamati “subdivision” e dove un giorno c’era un campo, dopo sei mesi abitano delle famiglie. Incredibile davvero!
Che da noi, qui nel nord degli USA, il 99% delle case abbia il “basement“, che sarebbe la cantina, resa abitabile e dove si svolgono le feste e ci si diverte in modo informale, lo sapevate?
Io quando mi sono trasferita, non lo sapevo.
Non sapevo tante cose e come tanti, soprattutto stranieri, ho fatto errori quando ho comprato la mia prima casa americana. Tutto quello che sapevo dalla mia esperienza italiana non mi servì a niente.
Mi trovai con una casa provvista di una porta così robusta e resistente che (è successo davvero) si aprì da sola una notte, per un colpo di vento più forte, mandandoci nel panico più totale perchè fece scattare il sistema di allarme facendoci pensare ad un intruso entrato in casa.
Comprai una casa senza tapparelle, pensando erroneamente che le persiane che si trovavano fuori dalle finestre fossero vere, invece erano pannelli messi lì solo di figura.
Non vi ho detto tutto in questa mia introduzione, ma spero di avervi incuriositi.
Scrivo un blog dal 2010, quando ancora non sapevo in che anno mi sarei trasferita a Miami, e successe improvvisamente un anno dopo. In questi 9 anni di blogging, 8 o quasi dei quali trascorsi sul territorio americano, ho conosciuto tante altre donne che come me hanno lasciato l’Italia per andare a vivere negli States. C’è chi ha sposato un militare, chi ha seguito il marito in un avanzamento di carriera, chi ha vinto la green card, chi ha iniziato qui un percorso di studi e poi qui è rimasto. La maggior parte delle donne che arriva a Miami, ad esempio, non ha un ingresso definitivo ma solo un visto, magari non immigrante, magari della durata di un paio di anni. Se queste donne sono anche mamme, magari di bambini in eta’ di asilo, e’ molto raro che lavorino: preferiscono rimanere a casa e occuparsi della famiglia. E ho notato che e’ lo stesso in altri Stati.
L’espatrio non è per tutti, e non tutti decidono di restare definitivamente – se ne hanno la possibilita’. Tutte le donne che vivono in America che ho conosciuto in questi anni concordano sul fatto che avere un determinato tipo di approccio mentale aiuta tantissimo ad integrarsi meglio.
Qualche tempo fa ho stilato un elenco di cose che chi intende trasferirsi all’estero, soprattutto in USA, e’ bene che sappia. Cose che riguardano la sfera emotiva, e che spesso non rendono la nuova vita facile. Ma superate quelle, tutto sara’ in discesa.
È un giorno che ci ha cambiati dentro perchè ci ha tolto la sicurezza e un po’ la fiducia nel prossimo: ci ha fatti diventare sospettosi di chi appare differente da noi. Il nostro prima è quello di una vita in cui pensavamo di essere fortunati ad essere in un periodo di calma e di pace. Ci sentivamo tranquilli in una parte del mondo dove non c’erano più guerre civili o religiose.
Da quel giorno però è cambiato tutto. Non solo perchè è stata colpita la nazione più potente del mondo, ma perchè da allora è successo ancora, ancora e ancora.
Parigi, Nizza, Berlino, Boston, Barcellona, Mumbay, per citare solo alcuni luoghi. È successo in alberghi, musei, piazze, mercati, ristoranti, spiagge, chiese, luoghi di lavoro.
E non siamo neanche più così naive da dire che viviamo in un periodo di pace perchè non è vero.
Da allora sono morti migliaia di soldati americani, europei. Sono morti milioni di civili in Irak, Siria, Libia ed in altre zone del mondo dove l’estremismo ha fatto le sue vittime.
Quel giorno però, l’11 settembre 2001, rimane il giorno che nessuno dimenticherà. Sappiamo tutti esattamente cosa facevamo e dove eravamo. Se lo ricorda persino mia figlia che allora di anni ne aveva cinque.
In questo post abbiamo deciso di raccogliere le risposte delle autrici del blog USA Coast to Coast alla domanda: Dove eri? “Where were you when?”.
Where were you when the world stopped turning?
Sabina (Living in California)
Lo ricordo come se fosse oggi. Ero tornata a casa per pranzo in uno dei soliti intervalli tra le lezioni all’università di Padova. Accesi la tv, un po’ annoiata, prima del corso di inglese, e tutti i canali ne parlavano.Guardavo incredula quelle immagini così surreali e non mi capacitavo di quello che stava succedendo in America. Un’America lontana, che non conoscevo, che avevo visto solo nei film. Impossibile credere che fosse tutto vero e che stesse succedendo sul serio. Immagini di morte e disperazione, che sono impresse nella mia memoria.
Ricordo che tornai all’università con quel bisogno di stringermi ad una comunità di persone per processare quella terribile tragedia… tornai al corso di inglese col desiderio di parlare di quelle immagini appena viste e di trovare nei miei compagni di corso una sorta di consolazione per quel dolore che provavo e per la paura immane che quelle immagini avevano generato in me. Sapevo che qualcosa era cambiato per sempre e da lì non saremmo più tornati indietro.
Francesca (Georgia peach in tiger town)
Francesca aveva scritto un post sul suo primo blog proprio con questo nome, Where were you when. Lei come me, abitava già negli Stati Uniti. Le sensazioni che prova sono molto simili alle mie ed entrambe ci ricordiamo il silenzio surreale di quel giorno .
“Pare ci sia un quarto aereo, arriva la conferma. E’ in volo, probabilmente diretto verso la Casa Bianca o su qualche altro importante bersaglio. Mi viene un’illuminazione, ricordo di avere un marito che lavora in un palazzo altissimo, gli ultimi piani occupati da militari. Provo a rintracciarlo, non risponde. Riprovo. Niente. Provo ancora. Nulla. Sento il rumore della chiave nella porta, e’ lui. Il boss ha rimandato tutti a casa. Rimaniamo come ipnotizzati, insieme, davanti al video. Passa il tempo, non si mangia, non si beve, non si va in bagno. Arriva la notizia, il quarto aereo e’ caduto in Pennsylvania, non ci sono piu’ aerei in volo. E’ finito tutto.“
Tiziana (ero Lucy Florida travel blog)
Vivevo a Roma, ormai sembra essere tre vite fa. Ero andata in un centro commerciale a comprare qualcosa, stringevo in mano la busta con una maglietta blu quando uscita dal negozio ho visto un capannello di persone davanti un maxischermo. Mi avvicino incuriosita. Ci sono i grattacieli, non capisco, e’ un film? Poi arriva l’aereo che colpisce la torre. Mi si gela il sanguee resto impietrita a guardare per capire. Non capisco, sono immagini, non c’e’ audio, ma capisco che e’ un telegiornale e capisco che a New York e’ successo qualcosa di grave. Le immagini mostrano il replay degli schianti a ripetizione, prima un aereo, poi il secondo, poi di nuovo, e poi ancora. Resto li’ senza muovermi, non ho idea quanto tempo sia rimasta li’ a guardare. E poi le torri che cadono, prima una, poi l’altra.
All’epoca ero una specializzanda in psicologia clinica e una mia tesina fu sui suicidi delle persone intrappolate ai piani piu’ alti che si gettarono dalle finestre in preda alla disperazione. Avete mai visto quel meraviglioso, drammatico documentario, 9/11, con i messaggi in segreteria lasciati da quelli che erano sul volo dirottato e sapevano perfettamente a cosa stava andando incontro?
Claudia (Un’alessandrina in America)
Antonella (Io me ne andrei)
Quel pomeriggio perfetto… Mi sento bene, elegante nel mio completo da ufficio, ho nel cuore e nella testa tutta la leggerezza dei miei 26 anni e Milano è accogliente con la sua dolce aria di fine estate. Mi sono presa il pomeriggio libero, ho una serata da preparare e voglio andare in corso Buenos Aires a cercare un vestito. Capita a volte che ti senti il mondo in mano, vero? In quel pomeriggio a me sembra di sentirlo tra le dita, perché tutto gira bene, tutto sembra avere un senso. In quel preciso istante, invece, la telefonata di mio fratello in lacrime fa cadere ogni senso, ogni principio, ogni certezza. Non è possibile, riesco a dire. Non è possibile.
Valentina (Parole Sparse)
Quella mattina ero al Politecnico per un esame di fisica. Ricordo appena uscita vedo sul cellulare un messaggio della mia amica che mi chiede se l’esame è finito e di correre subito a casa perché era scoppiata la guerra. Nel frattempo lei aveva iniziato il suo esame e quindi non potevo chiederle spiegazioni. Al tempo non c’era internet sul cellulare nè c’erano i social come oggi. Vado comunque subito a casa per capire che intendeva con quel messaggio.
Appena entro in casa mia mamma aveva il televisore acceso, la seconda torre era stata colpita da pochi minuti, e iniziavano ad arrivare le notizie che anche il Pentagono era stato colpito… il crollo, un altro aereo caduto e infine anche l’ultima speranza persa con il crollo della torre nord. Il caos, la paura che potessero esserci altri dirottamenti o attentati, la certezza che migliaia di persone avevano perso la vita, la speranza che altre centinaia che erano nelle torri fossero riuscite a mettersi in salvo… e la consapevolezza che non importa chi fosse stato, quel giorno era cambiato il mondo che conoscevamo. Un mondo che i ragazzi che diventano maggiorenni quest’ anno non hanno mai conosciuto. I nostri nonni hanno conosciuto la paura delle guerre, i nostri genitori gli anni delle stragi e la guerra fredda, ma chi è nato come me alla fine a cavallo degli anni 70-80 non si era mai scontrato direttamente con la paura. Certo c’erano state le rivoluzioni nell’est Europa, la guerra nei Balcani, ma erano in qualche modo lontane. L’11 settembre ha riportato la paura degli attentati, ha cambiato il nostro modo viaggiare, ha inculcato sospetto e paura…
Il popolo del West sembra possedere una consapevolezza esistenziale, apparentemente sconosciuta, o perfino incomprensibile ad altri luoghi americani. Qui il lavoro dei cowboy si muta in una danza di sudore e sacrificio, l’onestà delle parole e l’integrità degli atteggiamenti definiscono il corso delle giornate, e infine qui la legge della terra diventa la legge della vita.
Dal sudore e dalle lacrime di questa terra che spilla da ogni angolo, salendo in superficie, si può riconoscere e respirare un genuino senso di decenza e moralità, che poi è parte del mito dell’Ovest.
Numerosi film di Hollywood e infiniti romanzi premi nobel hanno contribuito a tutto ciò, ricreando protagonisti ed eroi nei panni di cowboy e sceriffi, qui presenti ancora oggi, che rappresentano, nell’immaginario comune, l’ultimo baluardo di legalità e rispettabilità prima dell’infinita frontiera davanti a loro.
Ma non solo: uomini e donne qualunque, guerrieri di vita comune, che poi sono la gente delle piccole cittadine di periferia, dei piccoli ranch a conduzione familiare, di una vita lontana dall’America del mito, ma proprio per questo, estremamente reale.
Ho spesso avuto modo di parlare di tutto ciò con amici americani che nell’Ovest, e in particolare in Wyoming, ci abitano e ci sono cresciuti. Ognuno di loro concorda su una verità: solo viaggiando nell’America rurale si potrà incontrare (almeno una parte) dell’America più vera.
Un’America imperfetta, esattamente come la vita di ognuno, ma che coltiva ancora oggi ideali che sono quelli che potremmo definire gli ideali dei nostri nonni, di una generazione ormai al tramonto ma che sembrava comprendere la vita meglio di chiunque altro al giorno d’oggi.
Forse perché i contatti umani erano più reali; forse perché le parole venivano usate con maggiore attenzione; o forse, semplicemente, è il mondo che cambia e si evolve.
I valori dei nostri nonni, nel West, venivano e vengono ancora oggi racchiusi in un riconosciuto elenco di dieci “comandamenti”, che è chiamato “Il codice del West”. Ne volete un esempio?
Potete trovare il mio articolo riguardo queste regole di condotta, e del perché la gente dell’Ovest ne è così legata, qui.
San Francisco è una città che offre tantissimo dal punto di vista culinario e mi considero molto fortunata ad avere avuto l’opportunità di vivere in questa città per 4 anni e mezzo, prima di trasferirmi a Los Angeles.
Quando vivevo in Italia non ero particolarmente interessata alle cucine internazionali, anzi… devo dire che sono sempre stata una persona che optava spesso e volentieri per una buona pizza piuttosto che per l’indiano o il giapponese. Ma vivere all’estero ti cambia, se ti lasci cambiare… e così a San Francisco mi sono aperta a nuove esperienze, anche culinarie.
Di certo in una città come San Francisco, c’è l’imbarazzo della scelta specialmente per chi risulta interessato a provare diverse cucine. Non si trovano solamente i soliti ristoranti, cinese, giapponese o mediterraneo, ma anche il peruviano, l’argentino, l’etiope e tanti tanti altri. E anche il giapponese, può avere delle varianti particolari, tant’è che tra i miei ristoranti preferiti a San Francisco c’è proprio un ristorante che fa sushi vegano! E se vi state chiedendo come ciò sia possibile visto che associate al sushi il pesce crudo soltanto, beh… sappiate che invece il sushi vegano esiste e può essere veramente delizioso.
Ad ogni modo, ammetto che da italiana, nutro ancora una passione per cibi che si avvicinano ai sapori della nostra cucina. E visto che spesso mi sono trovata a consigliare gli italiani in vacanza a San Francisco, ho pensato di condividere con voi questo post, dandovi quindi qualche dritta sui locali a San Francisco che a me piacciono particolarmente. Questo è il mio post:
Sabina, Living in California: That’s Culture Shock!
Se poi doveste avere delle domande specifiche, non esitate a chiedere!! Questi sono ovviamente solo alcuni dei ristoranti che dal mio punto di vista vale la pena di visitare a San Francisco, ma ce ne sono anche tanti altri e se volete condividere anche i vostri, fatelo pure nei commenti che così, quando torno a San Francisco, esploro nuovi ristoranti!!
Nella foto, il cosiddetto ‘shroom burger della catena californiana Shake Shack, un hamburger vegetariano con champignon ripieno di formaggio e fritto… gnam!
Noi di Milano di norma veniamo considerati un po’ distaccati, tutti presi dal lavoro, dalla vita frenetica della città, meno inclini alle relazioni e agli affetti. E’ un luogo comune classico in cui ci crogioliamo un po’ e che ci fa sentire più emancipati e più fighi rispetto agli italiani del Sud, tutti famiglia, amore e volemose bene. Io, nonostante le origini meridionali che sfoggio nel mio cognome decisamente sardo, mi sento milanese doc, quindi persona con un’agenda fitta, il passo svelto e poco tempo da perdere.
Da quando vivo negli Stati Uniti, invece, mi sento un incrocio tra Anna dai capelli rossi e un golden retriever abbandonato. Ho scoperto, infatti, che nemmeno la nebbia lombarda è riuscita a sopire il mio naturale bisogno di amici, di relazioni e di lunghe chiacchiere profonde, e l’ho scoperto proprio qui, nel tempio del “c’ho da fa”, che non è molto americano ma rende l’idea.
Gli americani, infatti, hanno sempre da fare. Non è facile stanarli, farli uscire, soprattutto non è facile creare una routine di uscite, quegli appuntamenti ricorrenti che, in Italia, venivano facili facili. Tu saresti disponibile ad aprirgli il tuo cuore e la tua agenda, ti metti a disposizione come un venditore di polizze assicurative, ma loro hanno una vita piena, e uscire con te non rappresenta la priorità del mese. E neanche del mese successivo. Insomma, ti fanno grandi feste quando ti vedono, e tu ti monti la testa, pensi che il tuo fascino ha colpito anche qui, e che diventerai il punto di riferimento del quartiere per cene, feste e lunghe chiacchierate a bordo piscina, o davanti a un caffè.
Pia illusione… Quella singola uscita, quella cena, o quell’aperitivo, non significano niente. Ma, ma… aveva detto… aveva detto good to see you… Sembrava felice di vedermi, di stare con me. Niente di personale, l’ha detto, ma ora è finita, torna a casa. Ma, ma… Niente ma, torna a casa.
Ed eccomi lì, un golden retriever a cui hanno lanciato una palla da tennis, che ora è rimasto solo nel parco senza nessuno a cui riportare quella dannata palla tutta sbavata. Ma perché succede questo? Può essere che siamo davvero diversi? Che concepiamo le relazioni, le amicizie, gli affetti in modo completamente diverso?
Io ho provato (sempre tenendo la pallina stretta tra i denti) a dare una risposta a queste domande… Buona lettura!