Ogni civiltà antica, ha una propria mitologia in cui si avvicendavano Dei, semi-dei, eroi. Ma gli Stati Uniti? Può un Paese nato solo da pochi secoli aver creato dei personaggi mitici? Sì, anche se forse è più corretto parlare più di folklore che di mitologia, anche gli Stati Uniti hanno creato alcune figure eroiche e leggendarie legate soprattutto alla loro nascita e ai loro valori. Ad esempio Paul Bunyan, Johnny Appleseed, Pecos Bill e John Henry.
Chi era John Henry
John Henry è uno degli eroi più noti del folklore americano, o meglio del folklore afro-americano. Era un uomo di colore che visse in schiavitù sin dalla nascita e che acquisì la libertà solo al termine della guerra civile. Una volta libero trovò lavoro come “steel driver”, uno di quegli operai che dovevano spingere con un grande martello delle punte di acciaio nelle rocce per poter inserire delle cariche esplosive per la costruzione di gallerie sotto le quali far passare la linea ferroviaria. John Henry era adatto a quel lavoro perché era uno degli uomini più forti al mondo e fu era di grandissimo aiuto per le compagnie ferroviarie che in quei tempi costruivano sempre più ferrovie per unire l’est all’ovest.
John Henry, che divenne celebre per sua forza, dedizione al lavoro e anche per il suo martello, contribuì a costruire lunghi tratti di ferrovia ma un giorno dovette fermarsi ai piedi di una montagna. I responsabili della rete ferroviaria valutarono il da farsi. Sarebbe stato troppo costoso aggirare la montagna e decisero di passarci attraverso scavando una galleria sotto la quale far passare la ferrovia. John non si tirò indietro e iniziò a scavare a mani nude per oltre un miglio seguito dai suoi compagni molti dei quali purtroppo morirono per la fatica. Quando arrivò a metà galleria, un signore ben vestito si presentò alla compagnia ferroviaria alla quale propose la vendita di una una perforatrice a vapore, una nuova macchina rivoluzionaria, precursore del moderno martello pneumatico. “Questa macchina,” disse “può fare il lavoro di ben 12 uomini”.
John ebbe la sensazione che la macchina avrebbe potuto sostituire i lavoratori nel prossimo futuro rendendoli disoccupati o senzatetto e sarebbe stata un bel guaio per i suoi compagni che avevano da poco conquistato la libertà. Si discusse sull’utilità di una macchina perforatrice e su quella della forza umana e venne proposta una sfida: Se John fosse riuscito ad uscire dall’altra parte della montagna prima della macchina perforatrice, il proprietario la avrebbe regalata alla compagnia ferroviaria. La sfida fu dall’esito incerto e durò per molte ore. Tutti aspettavano con ansia dall’altro lato della montagna, curiosi di chi fosse uscito per primo.
Ma a un certo punto la macchina si fermò. Gli altri lavoratori che avevano visto cedere gli ingranaggi della macchina corsero in avanti per andare a dire a John di fermarsi perché aveva vinto la sfida ma le polveri alzate dal lavoro incessante dello stesso John gli impedirono di raggiungerlo. John continuò a scavare fino ad uscire dall’altra parte accolto dalle grida di gioia dei suoi compagni. Una volta fuori, però, il cuore di John cedette e cadde a terra stremato. Morì poco dopo con il martello ancora nella sua mano.
Negli anni ’30, Monowi era una vivace cittadina del Nebraska con 150 abitanti, ma dal censimento del 2000 la popolazione risultava essersi ridotta a sole due persone: i coniugi Rudy ed Elsie Eiler.
Essi resistettero nell’area dopo che i giovani si dispersero altrove in cerca di lavoro e di altre opportunità.
Sfortunatamente, l’uomo morì nel 2004 lasciando la moglie l’unica residente.
Elsie Eiler, oggi 87enne, è la proprietaria della sola attività privata della città, la Monowi Tavern, che gestisce da 50 anni.
Dopo la morte di Rudy, la donna ha fondato anche una piccola biblioteca di 5000 volumi intitolata al suo defunto marito.
Oltre al suo ruolo di barista e bibliotecaria, Elsie è anche sindaco della città.
La donna deve pagarsi le tasse, rinnovare a se stessa una licenza per gli alcolici e produrre un piano stradale annuale per garantire i finanziamenti per i quattro semafori di Monowi.
La cittadina si trova a 4 miglia dal confine del South Dakota e a 60 miglia dal Walmart più vicino, circondata da strade sterrate che si snodano attraverso terreni agricoli.
Monowi è stata fondata nel 1902 e la sua economia si basava sull’agricoltura e sull’allevamento, ma la modernizzazione nel settore agricolo e la chiusura della ferrovia nel 1978 hanno accelerato il suo declino, costringendo i residenti a trasferirsi altrove in cerca di lavoro.
Elsie trascorre il suo tempo tra soli tre edifici: la casa, la taverna e la biblioteca di Rudy.
La maggior parte dei clienti del locale proviene dalle città vicine: operai edili, vigili del fuoco e agenti di polizia che si fermano ogni settimana per controllarla e scambiare due chiacchiere con lei.
Un cliente abituale è lo sceriffo della contea di Boyd: “Insieme ad altre forze dell’ordine della zona, veniamo qui una volta al mese e teniamo una riunione di informazioni tra le contee, invitando diverse persone ad unirsi a noi per discutere di cosa dobbiamo fare e su cosa succede”.
Il cibo e le bevande della taverna non sono cambiati da decenni, e nemmeno i prezzi: hamburger ($ 3,50, più 25 centesimi per il formaggio), hot dog ($ 1,25), palline di formaggio fritte ($ 4).
Durante i periodi di maggiore affluenza, specialmente con i cacciatori durante la stagione di caccia al cervo, gli amici di Elsie non esitano a saltare dietro il bancone per darle una mano.
Molti dei suoi clienti sono perfetti sconosciuti, viaggiatori che hanno conosciuto Monowi su internet e che vengono da tutte le parti del mondo solo per incontrarla e fotografare l’iconico cartello stradale ai margini della città con la scritta: MONOWI 1.
Sia che siate stati negli States, sia che non ci siate mai stati, non potete non conoscere (e non amare) i donuts 😃
I golosissimi donuts, le famose ciambelle americane fritte e glassate, possono essere considerate uno dei cibi più iconici della cultura e della pasticceria statunitense 🙂
Colorate, goduriose, dai mille topping, i donuts sono uno dei comfort food per eccellenza del popolo americano e uno dei dolci americani più celebri.
Le classiche ciambelle col buco sono caratterizzate da una pastella di farina, lievito, uova, latte, zucchero e olio, fritta e ricoperta di zucchero o glassa…
Ma i donuts esistono in moltissime varianti differenti: infatti possono essere ricoperte di cioccolato o avere topping diversi, farcite con marmellata, crema o panna, o addirittura preparati nella versione salata e in versioni ancora più bizzarre come i confettosi Bubblegum Donuts o persino quelli alcolici che si gustano su bicchierini ripieni di liquore!
Insomma ce n’è per tutti i gusti! 😃
Per i viaggiatori appassionati l’associazione con il marchio Dunkin’Donuts o l’inconfondibile insegna verde e rossa di Krispy Kreme sarà immediata, per i fan della fortunata sitcom animata “ISimpson” questi anelli dolci saranno sempre le “ciambelle di Homer”, ma la storia dei dolcetti ha origini ben più antiche, in parte ancora avvolte nel mistero.
Infatti, incredibile ma vero, queste colorate e ipercaloriche ciambelle sono in realtà di origine olandese. Lo sapevate?
Gli Stati Uniti sono i grattacieli sfavillanti delle metropoli, le decorazioni natalizie di questo periodo, la gente che fa la coda nei negozi e nei supermercati per preparare i cibi delle feste.
Gli Stati Uniti sono il paese delle possibilità.
Un mio follower sotto un mio post ha scritto “ È uno degli elementi straordinari degli USA. Puoi vivere al freddo e poi se ti stufi trasferirti al caldo. Ovviamente lavoro permettendo. Ma si sa, negli Stati Uniti è quasi tutto possibilie”.
Sembrerebbe il paese di Bengodi, quello descritto da Boccaccio, il paese dell’abbondanza.
Per molti lo è.
Per tanti lo può diventare.
Per altri non lo sarà mai.
Questi cittadini di serie B sono tantissimi, nascosti nelle zone povere delle grandi città, quelle dove i turisti non arrivano, o che vivono nelle sterminate lande degli Stati, che magari si attraversano nei Coast to Coast che tanto fanno chic in questo periodo, ma che non si vedono veramente.
E non parlo neanche degli homeless, che purtroppo anche a causa del Covid si sono moltiplicati nelle grandi città.
Parlo dei milioni di persone a cui il luogo dove sono nati non dà le stesse possibilità di chi è nato in un posto differente
E a fare la differenza tra spiccare il volo o avere una vita di malattie e povertà a volte è la presenza o no di un supermercato.
Vi vedo, penserete: che sta a dire questa? Magari ridete pure.
Anche a me sembrava impossibile.
Poi mi è successa una cosa bellissima, che mi ha cambiato la vita e mi ha fatto capire moltissimo di questa società dai contrasti estremi.
Da diversi anni l’immigrazione interna negli Stati Uniti rappresenta un fattore di grande impatto politico, sociale ed economico. Negli ultimi due anni poi è stato un vero boom dovuto alla pandemia che ha rimescolato le carte in un modo imprevedibile, e forse anche impensabile prima della primavera 2020.
I 5 stati he stanno raccogliendo la maggior parte delle persone che hanno deciso di cambiare in qualche modo la loro vita sono l’Arizona, iI North Carolina, il Colorado, la Florida e il Texas. Queste persone si stanno spostando per svariati motivi come una fiscalità meno pesante, un costo della vita più sostenibile o la scelta (spesso per motivi simili) fatta dale aziende dove lavorano di spostare le loro sedi altrove.
Di contro gli stati che stanno perdendo il maggior numero di residenti sono tra gli altri New York, California, New Jersey… Mete che ancora fanno gola a tanti immigrati che arrivano da altre nazioni.
Non serve essere dei grandi esperti degli USA per sapere che tradizionalmente questi stati e i loro abitanti hanno spesso posizioni e tradizioni differenti, se non opposte, a quelle degli stati dove si stanno muovendo.
Questo, come dicevo genera, un grande cambiamento che è sotto gli occhi di tutti e che si palesa sotto tanti aspetti quotidiani. Dalla carenza delle case a disposizione, al cambio di politica in alcune città, contee, e anche a livello statale. Talvolta questo appare in totale contrasto con quelle che sono scelte a volta diametralmentre opposte prese quasi a rinforzare lo status quo di chi ha visto per tanti anni (alle volte decadi) una sorta di status quo che non era stato minato.
Si sta creando una situazione di forte cambiamento dove chi si muove sceglie uno stato che sta completamente cambiando e che nel futuro prossimo probabilmente subirà in realtà ancora più cambiamenti. Ovviamente sperando che a prevalere siano i pregi esistenti e una spinta positive portata dei nuovi immigrati.
Come il Texas sta cambiando dopo la pandemia
Il Texas, anche prima di questi cambiamenti, era uno stato, secondo me abbastanza sorprendente, almeno agli occhi di tanti italiani, che hanno spesso lo stereotipo del cowboy e dei pozzi di petrolio. Mentre ci sono tra le altre cose bei musei d’arte, tanta industria tecnologica, una natura che passa dalle zone desertiche alle foreste, dalle coste ai canyon, o città un po’ “hippie” come la capitale Austin e non solo le campagne ancora tradizionaliste.
Un interessantre approfondimento è nel capitolo dedicato al Texas nel libro di Francesco Costa “Questa è l’America”. Se, invece, siete curiosi di leggere qualcosa in più su come ho visto cambiare la cittadina del Texas dove vivo vi rimando a questo mio post:
Siamo giunti a fine novembre, e per i ragazzi dell’ultimo anno della High School qui in America è ormai arrivato il tempo di tirar le somme e decidere dove applicare per continuare il proprio percorso di studi al College. Io sono un po’ arrugginita su cosa fare per iscriversi all’Università in Italia, e qui sto cercando di capire il più velocemente possibile per cercare di aiutare mia figlia che deve decidere e stiamo imparando insieme come muoversi. C’è da dire che qui i ragazzi sono molto supportati dalla scuola nei vari passi da percorrere per arrivare alla decisione finale (che comunque vedremo più avanti potrebbe anche non essere quella definitiva…) grazie alla presenza di counselors che li seguono e li spronano a migliorare il curriculum, che servirà ai College per accettare o meno la candidatura.
Fonte: Unsplash
Il curriculum viene costruito a partire dal 9° anno di scuola, quindi dal primo anno di High School che in USA dura 4 anni, ma già alle medie i ragazzi vengono incoraggiati a muoversi sempre più in autonomia. Vengono infatti educati dagli insegnanti a confrontarsi direttamente con loro evitando l’intercessione del genitore inviando email per richiedere, ad esempio, la possibilità di poter ridare un test in caso di voto non dei migliori. Proprio seguendo questa falsa riga, infatti, la counselor della scuola di mia figlia ha inviato ai ragazzi, e a noi genitori in copia, un’email ad inizio anno dove vietava assolutamente da parte nostra di chiamarla o inviare emails relative alle applicazioni per i College.
La scuola superiore frequentata dalle mie 2 figlie maggiori (una Senior per l’appunto, e una Sophomore che quindi frequenta il 10° grado – il nostro secondo anno) è una scuola internazionale, dove nel corso del secondo biennio si frequenta l’IBDP, cioè l’International Baccalaureate Diploma Programme un corso riconosciuto a livello mondiale per potersi iscrivere nelle università di quasi tutto il mondo senza dover sostenere corsi e esami integrativi. Gli studenti studiano 8 materie (TOK – Teoria della Conoscenza – simile alla nostra filosofia -, Matematica, Storia, Letteratura, Lingua straniera, Scienza, Materia artistica, e una materia aggiuntiva a scelta), per alcuni dei quali sostengono gli esami finali al termine dei 2 anni a maggio.
Allo studente viene richiesto di sceglierne almeno 3, e mai più di 4, da studiare a livello superiore (HL) e le rimanenti a livello standard (SL). La scelta viene abbastanza naturale seguendo il voto che si ha in ciascuna materia, come era per noi la scelta delle materie da portare all’orale alla nostra maturità (naturalmente con questa frase mi rivolgo ai matusa come me che hanno dato l’esame valutato ancora in 60esimi, e si sperava che le materie estratte per l’orale fossero tra le nostre top four…).
(Fonte: Unsplash)
ACT e SAT: i test attitudinali per l’ingresso al College
Quando si sottomette la domanda di iscrizione al College, fino a qualche anno fa uno dei requisiti fondamentali era quello di aver passato con un buon voto un esame chiamato SAT (Scholastic Assessment Test), un test basato sulla conoscenza di matematica, grammatica e comprensione del testo. La scuola fornisce ancora l’opportunità ai ragazzi di sostenere il test una volta gratuitamente, ma ogni studente può affrontarlo più volte (a pagamento) e verrà utilizzato il voto migliore. Un altro test considerato da alcuni College si chiama ACT che è più focalizzato sulla conoscenza della lingua inglese. Qui potete capire la differenza tra SAT e ACT.
A questo punto è possibile sottomettere la domanda di iscrizione (a pagamento) a diversi College e sperare in quante più risposte positive… perchè? Per poter avere quanta più scelta possibile per poter finalizzare l’iscrizione. Solitamente gli studenti, sulla base delle loro ambizioni (e i genitori sulla base del loro budget), stilano una lista dei College papabili includendo quelli teoricamente inarrivabili (ma la speranza è sempre l’ultima a morire, no?!), quelli accessibili, e quelli di back up in caso di risposte negative, incluso il Community College, soluzione più economica ma meno prestigiosa.
Perchè allora nel titolo ho scritto che il percorso inizia fin dalla nascita del bambino, visto che sto parlando solo degli ultimi 2 anni della scuola superiore? Beh, perchè andare al College in America può essere molto costoso e la maggior parte delle famiglie americane inizia ad accantonare soldi per l’iscrizione dei figli al primo test di gravidanza positivo, oppure… questo lo spiegherò meglio il prossimo mese, perchè ora vado con mio marito a spulciare tutte le offerte di finanziamento a tasso 0 per cercare di far frequentare un college a mia figlia (che non essendo cittadina americana non può lavorare come fanno tutti i suoi coetanei per potersi pagare gli studi…)
I Children’s Museum in America rientrano tra i luoghi più interessanti per i bambini. Stiamo parlando dei musei interattivi per bambini dove possono imparare divertendosi e sperimentare sul campo le loro curiosità in settori come scienza, arte e cultura!
I Children’s Museum sono presenti in tantissimi Stati degli USA e spesso diventano una delle nostre mete da visitare quando ci rechiamo in vacanza in qualche posto. È divertente scoprire insieme ai bambini quale è il museo per i bambini più vicino a noi, prepararci al mattino e partire alla scoperta delle novità che ha da offrirci quello specifico museo.
Oggi abbiamo provato “Pretend City”, un’intera città costruita per i bambini.
Qui i piccoli possono sbizzarrirsi in totale libertà “pretendendo” di svolgere la vita di noi adulti, quella stessa quotidianità a cui assistono tutti i giorni e che tante volte vorrebbero imitare!
Possono fare la spesa, guidare una macchina, costruire un ponte, esibirsi al teatro, fare un giro in piazza, andare dal dentista o essere il dentista, fare il pieno alla macchina, lavorare in un ristorante o andare alla libreria!
Tutto questo li fa sentire responsabili e conferisce loro maggiore autonomia e sicurezza nel saper fare.
Ovviamente si divertono anche un mondo e.. che la vita degli adulti in realtà sia meno divertente di quella dei bambini, glielo riveleremo solo col tempo. 😜
Il museo si trova ad Irvine, in Orange County, a circa 15 minuti da Laguna Beach!
Se vi trovate in vacanza in California con bambini dai 2 ai 7 anni circa, è il posto che fa per voi! Potrete infatti unire qualche ora di divertimento per i vostri piccoli ad una stupenda passeggiata nella vicina Laguna Beach, in quella che rimane una delle zone di mare più bella della California ☀️ 🌊 🌴
Se volete dare una sbirciatina ad un altro famoso Children’s Museum della California, vi parlo qui del “the new Children’s Museum” di San Diegoche vi consigliamo di andare a visitare se passate da quelle parti con i vostri figli. La nostra vita in California – Almost Home
Buon giorno a tutti, la volta scorsa vi ho parlato dell’iconica US395, questa volta entro più nel particolare regalandovi un estratto del mio libro riguardanti i laghi presenti lungo questa fantastica strada.
“5 Ottobre 2018. Quella mattina ci alzammo molto presto, ancora il jetlag si faceva sentire. Anche al Red Roof Inn avevamo la colazione compresa nella tariffa della stanza. Dopo esserci preparati per uscire, ci catapultammo, si fa per dire, nella sala colazione dell’albergo. Eravamo davvero affamati. Mangiammo un bel po’. Sapevamo che sarebbero servite diverse energie per affrontare la giornata, era meglio partire ben carichi. Le colazioni negli USA sono sempre uguali, ci sono sempre più o meno le stesse cose: il burro (o la margarina), rigorosamente ghiacciato, che se non lo scaldi in qualche modo è impossibile da spalmare; il pane a fette, con l’immancabile tostapane, dove sempre devi fare un po’ di coda per bruscare qualche fetta; il burro d’arachidi, in confezioni monodose sempre in quantità inferiore rispetto a burro e margarina; la marmellata che ti spacciano come tale, dato che sulle confezione monodose c’è scritto appunto marmellata, quando poi invece è solo gelatina o qualcosa del genere; a volte c’è anche il cream cheese, anche questo tenuto in frigorifero a vista, quindi vi immaginate il fastidio per spalmarlo sul pane… Se siete golosi sono spesso disponibili parecchi dolci come brownies, plumcakes, pancakes e muffins. Ultimamente nei miei viaggi ho notato che quasi tutti gli hotel mettono a disposizione anche la macchina per preparare i waffle. Le persone quando la utilizzano fanno sempre un sacco di confusione, senza contare il fatto che lasciano sempre chiazze di composto per waffle in ogni dove sulla macchinetta. Come vi ricorderete io sono allergico all’uovo, quindi tutte le pietanze dolci sono per me inaccessibili, mi devo arrangiare con il pane tostato, il burro, il cream cheese, il burro d’arachidi e la marmellata. È una festa quando sono disponibili anche delle pietanze calde. Spero sempre che sotto quei coperchi ci sia qualcosa che io possa mangiare. Spesso sono omelette o uova, altre volte ci sono dei mini hamburger o il mio adorato bacon!!! So che fa malissimo, ma io lo adoro. Quando c’è ne faccio incetta. Anche se non dovrei perché è davvero grasso e non fa proprio bene al fisico. Per fortuna per la mia linea non è quasi mai disponibile. Dopo colazione tornammo in camera per mettere via le nostre cose e ripartire. Cerchiamo sempre di non tirar fuori dalle valige troppi vestiti e altri oggetti per evitare di perdere tempo. Questo succede quando dormiamo solo una notte in un posto. Diverso quando rimaniamo qualche giorno in più. Quel giorno avevamo in programma di vedere molte attrazioni naturali e non. La Sierra Nevada, questa zona poco conosciuta in Italia, perché fuori dai percorsi classici proposti da tour operator e agenzie di viaggi, offre una gran vastità di posti interessanti. Qui avevamo già visto parecchio, ma ritenevo necessario vedere la zona che collega lo Yosemite National Park e la Death Valley National Park che avevamo sempre saltato in passato per vedere altro. La prima tappa di quel soleggiato venerdì di ottobre era un posto un po’ particolare, poco conosciuto, ma secondo me, molto affascinante: il lago Crowley. È un bacino idrico sul fiume Owens, nella contea di Mono, a pochi chilometri da Mammoth Lakes. Fu creato nel 1941 grazie alla costruzione della Long Valley Dam grazie al Department of Water and Power di Los Angeles, come deposito per l’acquedotto losangelino e per il controllo delle inondazioni. Il lago prende il nome da Padre John J. Crowley, “il padre del deserto”, che fu una figura chiave nella storia della Owens Valley e un eroe locale. Quando divenne chiaro che l’appropriazione dell’approvvigionamento idrico da parte dell’acquedotto di Los Angeles avrebbe reso impossibile l’agricoltura nella Valle di Owens, molti abitanti della Valle persero ogni speranza e abbandonarono i loro appezzamenti di terreno. Padre Crowley viaggiò per tutto il territorio, convincendo molti di loro che la loro terra poteva diventare una destinazione turistica.”
Se vi è piaciuto questo estratto potete leggere l’ intero libro a questo link:
Ufficialmente, si definisce “stagione degli uragani atlantici” quel periodo dell’anno che va dal primo di giugno al 30 novembre. Queste date valgono per tutti i Paesi potenzialmente interessati dalle cosiddette attività cicloniche, che non consistono solo negli uragani, ma anche in altri fenomeni atmosferici, quali per esempio le più comuni e meno temute tempeste tropicali.
All’interno di questo periodo, vi è poi una fascia più ristretta di tempo, considerata la più a rischio uragani, che va da metà agosto a metà ottobre, che potremmo definire il picco della stagione. Credo non sia un caso che gli ultimi due uragani transitati dalle nostre parti, Irma e Ian, siano giunti entrambi nel mese di settembre, che personalmente definirei il mese più rischioso di tutti, relativamente alla Florida.
Ma io, purtroppo non sono Luca Mercalli. Per questo motivo, invece che a luglio, in Florida farei chiudere le scuole e tutto il resto a settembre. Ma io non sono nemmeno Ron De Santis.
Nell’arco di questi sei mesi, chi come noi vive nelle zone a rischio, potrebbe (e dovrebbe) dedicarsi a una serie di piccole e grandi attività precauzionali utili in caso di arrivo effettivo dell’uragano. I più meticolosi, per esempio, si portano avanti col lavoro montando gli shutters alle proprie finestre, che rimarranno così oscurate per i sei mesi successivi.
I mei shutters
Non è obbligatorio per legge, certo, ma è un modo per giocare d’anticipo, senza aspettare di ritrovarsi a ridosso dell’evento, quando magari è necessario pensare a cose più urgenti, tipo organizzare un piano di evacuazione per la propria famiglia. Il montaggio degli shutters può richiedere infatti anche un paio d’ore, che, a ridosso di un uragano in arrivo, possono essere difficili da trovare, soprattutto se sta già piovendo.
Altra utile attività da svolgere è la pulizia delle piante e dei giardini, in modo che non rappresentino un pericolo per i tetti e le finestre della casa, propria e altrui: molti alberi vengono potati con tagli drastici, dalle palme vengono raccolte tutte le noci di cocco, vengono puliti i canali di scolo e svuotate le grondaie dal fogliame accumulato.
In genere, riusciamo ad avere una quasi matematica certezza del punto esatto di impatto di un uragano sulla terraferma (“landfall“) a 48 ore dal suo arrivo. Due giorni, durante i quali abbiamo il tempo per decidere cosa fare e dove andare. Chi pensa di non aver abbastanza tempo, se lo deve trovare: abbandonare qualsiasi tipo di attività in cui si sia coinvolti in quel momento, compreso il proprio lavoro, è considerato normale, tanto che, addirittura, spesso capita di essere preceduti in questa decisione dagli stessi datori di lavoro e dalle scuole, che dichiarano la chiusura con un paio di giorni di anticipo. Ogni minuto, da lì in avanti, andrà sfruttato al meglio, per organizzarsi a svolgere il necessario, ma senza farsi prendere dal panico.
Questo, del resto, è l’aspetto “confortante”, se così possiamo definirlo, degli uragani: al contrario di altre calamità naturali, quali per esempio i terremoti, rimangono abbondantemente prevedibili, la qual cosa permette dunque di ridurre al minimo i possibili danni e disagi conseguenti, anche se non di azzerarli del tutto.
In linea di massima, quando ormai si è certi che l’uragano sta per farci visita, esistono umanamente due sole opzioni tra cui scegliere: evacuare, o chiudersi in casa in attesa che passi e incrociare le dita.
Ognuna di queste soluzioni ha i suoi pro e i suoi contro e non è sempre detto che l’una sia meglio dell’altra, anche perché ciascun uragano è dotato di specifiche caratteristiche sue proprie, diverse dai precedenti, e il suo passaggio può portare o meno con sé diversi tipi di effetti collaterali particolari che non dipendono esclusivamente dalla sua categoria, velocità o dimensione, ma da tantissimi altri fattori, quali la temperatura dell’aria, quella dell’acqua dell’oceano che sta attraversando, la direzione dei venti, non ultimo se prima di “atterrare” incontra sul suo percorso ostacoli di un certo volume, quali grossi arcipelaghi, che ne potrebbero modificare l’intensità e/o la direzione, ecc.
Parlando di effetti collaterali, per esempio, si citano spesso i due fenomeni, a volte confusi tra loro, del flooding (allagamento) e della storm surge (onda di tempesta), che non sempre sono concomitanti all’uragano: Irma, più potente di Ian, devastò i centri colpiti soprattutto a causa del vento fortissimo, mentre Ian ha provocato più danni con l’acqua portata dalle storm surge.
Evacuazione in caso di uragano
Qualche riga più su ho parlato di “scelta”, anche se, in alcune situazioni e in alcune zone, qualora ne sussistano le condizioni, l’evacuazione potrebbe essere, non solo consigliata, ma proprio ordinata dalle autorità, le quali, una volta emanato l’ordine, sebbene non possano di fatto costringere la popolazione con la forza a lasciare la propria abitazione, da quel momento in poi, non sono più ritenute responsabili per la loro incolumità e nel caso qualcuno dovesse aver bisogno di aiuto, non potranno garantire il soccorso: se hai deciso di restare in una casa in riva al mare e poi ti trovi abbarbicato sul solaio, circondato da squali e alligatori, come puoi aspettarti che ti possano venire a recuperare in tempi ragionevoli, mentre fuori imperversa l’uragano e i mezzi di soccorso sono tutti bloccati in qualche rifugio?
L’evacuazione comporta lasciare la propria abitazione e partire in macchina. In tal caso, occorrerà considerare diverse possibilità:
dirigersi verso una località non interessata dall’uragano e pernottare in un albergo. Con Irma, gli hotel furono tenuti a ospitare gli evacuati gratuitamente, compresi eventuali animali domestici al seguito.
Rimanere in zona e recarsi in uno dei cosiddetti shelters, cioè edifici dichiarati anti-uragano, quali scuole o chiese dislocati nell’area, anch’essi tenuti ad accettare animali domestici.
Per i più fortunati, farsi ospitare da qualche parente o amico, che vive in una città fuori pericolo.
Alla peggio, se non si sa proprio dove andare, procedere in macchina, seguendo direzioni diverse dal percorso previsto dall’uragano, senza una meta specifica, ma con l’alta probabilità di dover dormire in auto: le arterie di comunicazione principali saranno molto trafficate. Controllate con largo anticipo di avere sufficiente benzina nell’auto: le stazioni di servizio della zona verranno prese d’assalto per riempire le taniche per i generatori e il carburante scarseggerà nei giorni precedenti l’arrivo dell’uragano.
In ogni caso, qualsiasi sia la vostra modalità di evacuazione, attenzione a chi come noi possiede animali domestici quali gatti e pesciolini in un acquario, perché ovviamente essa non riguarda solo i membri homo sapiens della famiglia. Occorre preparare le proprie valigie, ma portarsi anche tutto l’occorrente per gli animali domestici. Non si sta partendo per una vacanza. Non basta chiudersi il portone a chiave alle spalle e andare via. La casa va lasciata in sicurezza. Compreso il giardino e qualsiasi oggetto ingombrante vi si trovi all’interno, tipo cassonetti dell’immondizia, attrezzi, barbecue, scivoli, altalene, ecc.
Valutare anche la possibilità che, se costretti a dormire in auto, ci si possa stare comodi e al caldo, grazie a qualche materassino da campeggio, cuscini e coperte.
Dato che con ogni probabilità mancherà la corrente per diversi giorni, occhio a tutto ciò che è contenuto nel frigo e nel freezer.
Ricordarsi di portare con sé tutti i documenti più importanti, prelevare del contante, e lasciare il resto dei documenti non indispensabili in un posto sicuro e asciutto.
In principio, quando Ian era ancora lontano dalle coste della Florida, ma questa veniva data come la probabile vittima sacrificale, io e la Vivi avevamo considerato fortemente la soluzione di evacuare, salvo poi gradualmente cambiare idea, via via che le notizie si facevano più precise. Tanto che, a un certo punto abbiamo deciso di rimanere chiusi in casa.
Vi racconto nel dettaglio quali sono state le ragioni che ci hanno portato a tale scelta e le conseguenti strategie messe in atto, nel mio post “L’uragano Ian”.
Il Giorno del Ringraziamento, o Thanksgiving day, per gli americani è una delle feste più importanti insieme al Giorno dell’Indipendenza, Halloween e Natale. Una delle più sentite e rispettate per la quale migliaia di persone si spostano in tutto il paese per raggiungere le loro famiglie e pranzare insieme ai propri cari.
Questa celebre festività è oramai familiare a molti di noi visto che la nostra cultura è fortemente influenzata da quella statunitense, e, diciamolo, anche perché lo abbiamo visto festeggiare più e più volte nelle serie televisive e al cinema 😉
Sicuramente conosciamo il famoso tacchino ripieno, sappiamo che si svolge in autunno, sappiamo che è una giornata dedicata alla famiglia e agli amici, magari ci ricordiamo parte della sua storia… e poi che altro?
Oh certo! Che il Ringraziamento è il momento perfetto per riflettere sull’anno passato nell’intimità della propria casa, ringraziarechi ci sta vicino e condivide con i propri cari le cose per cui si è riconoscenti 😍
E poi?
Diciamo che anche chi la conosce molto bene ne potrebbe ignorare degli aspetti cruciali: ad esempio, che dietro di essa si nasconde una storia diprevaricazione e soprusi ai danni dei nativi americani, i quali, da 50 anni a questa parte, celebrano una contro-festa per non dimenticare un massacro che gli statunitensi ricordano poco volentieri.
Accanto alle usanze tradizionali, al suo significato più puro (e più bello!), ci sono anche quelle più ludiche e divertenti…Insomma si sa, gli Stati Uniti sono un Paese enorme e complesso, con le sue contraddizioni, i suoi paradossi e i suoi controsensi.