Ristoranti vegani a Miami

Gli Stati Uniti offrono la possibilità di mangiare cucine sempre differenti, nonostante al primo sguardo possano sembrare abbastanza uniformati sul loro territorio.

Certamente si trovano le stesse catene commerciali dall’Alaska alla Florida, dal Maine alla California. Si può mangiare una fetta di pizza di Pizza Hut a New York come a Jemez Springs, New Mexico, un panino di Chick-fil-A a Milwaukee come a Detroit.

Ci sono però diverse connotazioni regionali, certi cibi che si trovano al Sud e qui negli Stati del nord diventano un’eccezione, o viceversa.

E ci sono tantissime cucine di paesi esteri, riproposte dagli immigrati che come un melting pot, hanno creato la popolazione di questo gigantesco paese.

Potremo anche affermare, storcendo il naso, che la cucina italo-americana non è quella italiana verace, come non esiste in Giappone il California Roll con il cream cheese, o in Messico la cucina Tex-mex. Non siamo i soli che non trovano la cucina proposta negli Stati Uniti esattamente come quella dei loro paesi natii o incontrata nei loro viaggi in un certo paese.

Però, anche se non troverete qui chi vi fa il bollito misto presentandovi la testa bollita del manzo ( una mia amica americana in visita in Piemonte a momenti moriva quando l’hanno portata a mangiare quella prelibatezza in un ristorante tipico del casalese e-come la capisco- non è poi riuscita a toccare cibo) o, per mangiare una Peking duck come si deve, dovrete avventurarvi nei vicoli delle Chinatown e conoscere il ristorante giusto, sarete certi che troverete tanti piatti e cucine differenti, anche se un po’ americanizzate.

Nello stesso modo, siate certi che non morirete di fame anche se avrete le più diverse limitazioni dietetiche, sia per allergie sia per posizioni etiche o religiose. Troverete sempre un ristorante che vi offrirà cibi gluten free (per celiaci), con menu chiari per sapere se i piatti contengono cibi che vi possono creare reazioni allergiche di ogni tipo, e che vi accomodera`nelle vostre diete religiose o se siete vegani.

Noi, con nostra figlia vegana da 5 anni, siamo diventati molto sensibili all’argomento e direi piacevolmente sorpresi delle scelte che si trovano in giro.

A parte scaricare la preziosa app “ Happy Cow” che vi consiglio e che ci ha salvati in Giappone, dove anche la lingua risultava un ostacolo, prima di arrivare in un luogo leggete ed informatevi e sono sicura troverete moltissimi suggerimenti.

Certo: trovarli in Italiano, per ristoranti provati da italiani è sempre meglio, vero?

Allora ecco nel mio post la lista di ristoranti vegani a Miami, provati e approvati  da noi durante il nostro ultimo viaggio in quella citta’.

Buona lettura e buon appetito!

Claudia, Un’alessandrina in America

Scegliere il College in America part 2: il compromesso economico

L’ultimo mese non è stato un periodo facile, sia personalmente che per tutta la famiglia. Come avevo scritto nell’articolo precedente,  è arrivato per la nostra prima figlia il momento di scegliere l’università. Io, che sono una boomer, ero abituata al “metodo italiano”, cioè al fatto che nell’ultimo anno di scuola media si dovesse scegliere la macroarea, che molto probabilmente avrebbe influenzato poi la scelta futura dell’università, e quindi del destino lavorativo (sempre se la “fortuna” ti assisteva e la scelta fatta si rivelava poi azzeccata…).

Qui in USA abbiamo scoperto un mondo tutto nuovo, scolasticamente parlando, e io ma soprattutto mio marito ci siamo dovuti mettere sotto a studiare come quando dove e perché scegliere una università piuttosto che un’altra per e con la nostra primogenita.
Come avevo già scritto, di differente rispetto all’Italia, la scuola superiore qui è uguale per tutti, cioè non esistono i vari licei (esistono comunque delle scuole professionali di avviamento al lavoro per chi non se la sente di laurearsi…). Le materie possono differire nel secondo biennio per corsi elettivi, che possono indirizzare verso materie scientifiche piuttosto che umanistiche o artistiche.

Campo di football della Lake Orion High School, in Lake Orion (MI) (fonte thembca.org)

Già dal terzo anno nelle scuole gli studenti iniziano ad approcciare all’università, attraverso degli incontri con dei rappresentanti che presentano i corsi di studio. Gli studenti sono invitati agli Open day nei Campus universitari, dove gli viene assegnato uno studente tutor e possono fare shadowing per un giorno (cioè seguire le lezioni e le attività di una giornata tipo). Le Università più prestigiose sono costose e molto selettive. In genere lo studente sottopone domanda a molteplici Università, comprese un paio di riserva nel caso le domande dovessero venire rigettate dalle prime scelte. Alcune Università, oltre ad avere una soglia di una media scolastica più o meno alta, richiedono anche un tema motivazionale, e nel caso di indirizzi artistici come canto recitazione o ballo, un provino di ammissione. Nel giro di qualche settimana l’Oracolo si pronuncia e si potrà quindi scegliere tra quelle che hanno dato responso positivo, e lo studente verrà chiamato a dare una caparra per garantirsi il posto a partire da agosto.

Vista aerea di (parte dello) sterminato campus universitario della University of Michigan, il college più prestigioso (e costoso) dello stato, Ann Arbor (MI)(fonte amazonaws.com)

Bene! Tutto a posto, direte voi! Eh no! Questa era la parte facile, dico io… ora, soprattutto per noi è iniziato un calvario. Perché una famiglia americana, per rendere i costi del College sostenibili, sa di avere almeno un paio di scelte, quali attingere ad un fondo di risparmi attivato molti anni prima, oppure di aprire un mutuo che il ragazzo dovrà estinguere nei primi anni lavorativi. Gli adolescenti oltretutto appena possono iniziano a fare lavoretti che permettono loro di guadagnare qualcosa per rendersi un po’ autonomi e, in più, possono ambire a diverse borse di studio per meriti scolastici e/o sportivi. Per quanto riguarda invece una famiglia di espatriati con visto lavorativo come la nostra, la situazione cambia e anche di molto.

Infatti, nonostante noi siamo su suolo americano da quasi 6 anni, nonostante iI contratto di lavoro sia locale, Giulia, dalla maggior parte delle Università, viene considerata una studentessa internazionale, vedendo lievitare così i costi di iscrizione del doppio rispetto ad uno studente residente.

Oakland University, permette agli studenti con visto L2 di essere considerati “in-state” e abbattere la retta, in Rochester (MI) (fonte crainsdetroit.com)

Abbiamo quindi iniziato una ricerca di tutti quei College che potevano considerarci residenti, anche perché, in aggiunta, sempre per il discorso del visto, sapevamo di non avere accesso ai prestiti federali. Parlando in soldoni, qui (e badate bene, per qui intendo in Michigan, in altri Stati i costi possono essere molto diversi…) un College per un residente può arrivare a costare tra i $15mila e i $30 mila l’anno, costo che varia a seconda del prestigio della scuola e del fatto che venga richiesto o meno di dormire nel Campus, mentre per un internazionale la spesa annua può arrivare a $60mila/anno.
Una delle cose che abbiamo capito, o almeno speriamo di avere capito, al momento, è che per iscriversi al College qui in Usa è bene muoversi e non aspettare maggio – giugno perchè chi prima arriva bene alloggia. Infatti chi si iscrive presto ha più accesso alle borse di studio.

Se poi non si riesce ad entrare in nessun College, l’alternativa è per 1 o 2 anni di frequentare un college popolare (Community College) caratterizzato da offerta formativa limitata e da costi molto più contenuti. Durante questo periodo, comunque, si possono accumulare crediti che verranno scalati se si riuscirà successivamente ad entrare in un College privato. I Community College sono organizzati per rilasciare allo studente, dopo 2 anni, un titolo chiamato Associate Degree, soluzione piu che dignitosa per chi non vuole/può affrontare i 4 anni del Bachelor’s Degree. I College privati, invece, propongono corsi di Laurea di 4 anni più la Laurea Magistrale (Master’s Degree) e corsi post Laurea tipo MBA (che in italia chiamiamo “Master”): tutto questo su vasta gamma di indirizzi (ingegneria, medicina, arti, aree umanistiche) fatto salvo alcune eccezioni come ad esempio la Lawrence Technological University (improntata soprattutto sull’ingegneria) qui in Michigan.

Lawrence Technological University, specializzata in Ingegneria, Scienze, Architettura e Matematica, in Southfield (MI) (fonte cloudfront.net)

Per il corso di formazione che vorrebbe intraprendere Giulia, in Michigan abbiamo la University of Michigan, uno delle 3 college più prestigiosi degli Stati Uniti, che incredibilmente se la gioca con le Università della costa Est, volendo lei fare un corso di Musical Theatre. Naturalmente, è una delle più costose, e purtroppo abbiamo dovuto scartarla relativamente presto non avendo i fondi necessari per affrontare tale spesa e avendo oltretutto altri 3 figli e una che arriverà a iscriversi al College a breve giro… quindi stiamo sperando di far in modo che la scelta sia una delle più giuste e di non avviare Giulia ad una carriera di artista di strada… anche se al giorno d’oggi i Måneskin insegnano che si può iniziare a far musica in giro per le strade della propria città ed arrivare poi a suonare al Jimmy Fallon Show e al Saturday Night Live. Se si ha talento, voglia e soprattutto si incontra un produttore bravo e probabilmente molto scaltro.

Maneskin al Saturday Night Live Show, Gennaio 2022 (fonte billboard.com)

Chiara, Michigan

Un’icona inaffondabile


Nella zona sud della città di Philadelphia, Pennsylvania, nelle acque del fiume Delaware e più precisamente al molo 82 (di fronte a Ikea), è possibile trovare il simbolo di un’epoca e di una nazione: il colossale transatlantico SS United States.

Ispirato alle regine inglesi degli anni trenta, le navi Queen Elizabeth e Queen Mary, fu costruito dall’omonima compagnia navale, la United States Lines, e quasi totalmente finanziato dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che desiderava una lussuosa nave passeggeri, ispirata al clima delle dive e del cinema hollywoodiano di quel tempo, che potesse però, all’occorrenza, rinnovarsi e trasportare velocemente fino a 15.000 truppe senza rifornirsi di carburante, considerando il contesto della guerra in Corea e della Guerra Fredda.

“The Big U” e lo sfarzo del passato

I Transatlantici, navi pensate per attraversare l’Atlantico in circa 5 giorni, per decenni hanno rappresentato un vero e proprio status symbol e “the Big U” (la grande U, un affettuoso soprannome con cui la ricordano gli americani) in particolare simboleggiava la potenza finanziaria e tecnologica dell’America del dopoguerra.

Progettata da William Francis Gibbs, intraprese il suo primo viaggio il 4 luglio 1952 e stabilì un record di velocità, ad oggi ancora imbattuto, di 3 giorni, 10 ore e 40 minuti, che gli valse l’ambito titolo Nastro Azzurro, un trofeo assegnato alla nave più veloce nella tratta Ovest-Est o in quella Est-Ovest.

Poteva trasportare fino a 1928 passeggeri, era larga 30.9 metri e lunga 301,7 metri. La stazza lorda era di 53.330 tonnellate e raggiungeva la notevole velocità di 38 nodi.Venne costruita completamente in alluminio e per motivi di sicurezza venne totalmente bandito il legno, tanto che venne chiesto alla Steinway, la nota casa costruttrice, addirittura un pianoforte di alluminio! L’azienda si rifiutò, ma riusci a trovare una tipologia di legno ignifugo; Gibbs dopo averlo letteralmente cosparso di benzina ed aver provato ad incendiarlo, senza successo, approvò l’imbarco dello strumento musicale!

Come una vera star, la SS United States puo’ vantare tra I suoi passeggeri celebrità del calibro di JFK, Dwight Eisenhower, Harry Truman, Grace di Monaco, Salvador Dali, Elizabeth Taylor e la nostra Gioconda, che rientrò a Parigi dopo il “tour” che la porto negli Stati Uniti negli anni ’60.

Lo stato attuale ed i progetti futuri

La nave cessò la sua attività nel novembre del 1969, quando ormai il servizio di trasporto passeggeri navale venne quasi interamente sostituito da quello aereo.

La SS United States, fino al 1978 sigillata come nave di riserva della Marina Militare, vive oggi purtoppo un futuro molto incerto; a causa dei costosissimi costi di manutenzione (oltre 60.000 dollari al mese!!) ha cambiato numerosi proprietari ed attualmente si stanno cercando fondi per ripristinare il suo antico splendore.

Si stima che ci vorrebbero circa 300 milioni di dollari per restaurarla, una cifra astronomica, ma non impossibile, considerando il proverbiale nazionalismo americano che nel 2016, ad esempio, ha raccolto in poco più di un mese centinaia di migliaia di dollari in donazioni!

La fondazione SS United States Conservancy, diretta dalla pronipote di Gibbs, vorrebbe farla diventare monumento nazionale o comunque valorizzarne l’importanza storica, ma anche colossi come Airbnb hanno avanzato proposte per farla diventare un luogo di soggiorno esclusivo.

Mentre si decide il suo avvenire, questo meraviglioso transatlantico sonnecchia arrugginito al Pier 82, spogliato della sua identità, ma non del suo glorioso passato.

Debora, Philadelphia

Guida di Miami: Coconut Grove

Coconut Grove è stato il primo quartiere di Miami che ho conosciuto. Nel lontano 2009 accompagnai nel suo trasferimento oltreoceano quello che all’epoca era ancora il mio fidanzato – no, non stavo cercando di liberarmi di lui.

La nostra vacanza insieme fu di una sola settimana, bellissima. Ricordo ancora quando quasi al termine dei 7 giorni arrivò il trasloco internazionale ed improvvisamente la casa vuota si riempì di scatoloni!

Tornai poi di nuovo a fine giugno. In tre mesi era cambiato tutto! Lui aveva trovato un lavoro – quasi subito – e aveva iniziato la scuola di cucina. Studiava al mattino e lavorava la sera. L’albergo dove l’avevano assunto era proprio in Coconut Grove, e ci tornavamo anche nel suo tempo libero.
Coconut Grove è un quartiere che si affaccia sul mare ma non ha spiagge. Molti dei residenti hanno una barca, però. Qui vivono europei, tanti, e americani. Tra questi anche molti afroamericani, discendenti dei lavoratori delle Bahamas che materialmente la costruirono. Coconut Grove infatti risale alla fine del 1800, e Miami venne fondata nel 1896 grazie all’indispensabile voto di questi uomini di colore.

Cosa vedere a Coconut Grove

La cosa piu’ affascinante di Coconut Grove sono le case storiche, incastonate nella vegetazione tropicale, dagli inserti in pietra, costruzioni basse col giardino. E la storia di Coconut Grove passa attraverso alcune case di interesse storico e artistico. Le piu’ note sono la casa di James Deering, quella di Ralph Middleton Munroe, e quella di David Farchild. Questi tre imprenditori costruirono quelle che sono considerate tra le piu’ belle ville di tutta la Florida.

Coconut Grove ha proprio un’aria rilassata e tranquilla ed e’ ideale per sentirsi proprio in vacanza.

Se state pianificando una visita a questo quartiere, ho preparato per voi una piccola guida ad un piccolo prezzo, che potete scaricare direttamente. La trovate a questo link, fatemi sapere cosa ne pensate!

Tiziana, Lucy in Florida travel blog

Girl Scout Cookies e non solo

Lasciati alle spalle il pumpkin spice latte, i profumi di cannella e dei dolci natalizi, dopo la Holiday season, inizia il periodo in cui imperversano i girl scout cookies. Ormai un grande classico per molte famiglie americane, sono indubbiamente anche un business non indifferente.

Un business per l’ organizzazione delle girl scout e i comitati locali che si finanziano, per i produttori e per le girl scout ovviamente. Quante più scatole vendi acquisisci più badge importanti. Una cosa da ragazzi verrebbe da pensare, magari, spesso esasperata anche dalla competizione a primeggiare  innata nella maggior parte degli statunitensi. Ma non solo.

Gia in passato vi avevo parlato degli adolescenti e cultura del lavoro in USA, sicuramente educare al lavoro e a una mentalità business-oriented è un fattore molto importante.

Importante non solo per quello che può insegnare, ma anche perché può aiutare a mettere i primi mattoni per costruirsi un futuro o aiutare ad aprire porte in futuro. Chiariamo non è il numero di scatole di biscotti che una girl scout venderà a 10 anni a segnarne il futuro, ma potrebbe in realtà non essere solo una questione di biscotti.

Nel post vi racconto di Elizabeth Brinton, che detiene il record di scatole vendute e di come arrivò a venderle a due Presidenti. In un’ intervista anni dopo il suo ingresso all’università della Pennsylvania Christoph Guttentag, responsabile delle iscrizioni, ebbe modo di ricordare a sua domanda di ammissione: “Il fatto che vendesse biscotti a questi clienti dimostrava che aveva un debole per la tenacia”.

Ovviamente questo è un caso reso particolare dalla notorietà che l’aspirante studente aveva acquisito, ma il giudizio espresso rispecchia molto come questo tipo di attività possa essere essere presa sul serio e non solo vista come una cosa da bambini.

Qual è il vostro preferito? E se invece non li conoscete qui vi racconto un po’ meglio cosa sono i girl scout cookies. Cliccate qui sotto!

Valentina, Parole sparse – un’Italiana in Texas

Le spiagge più belle di Maui

Quando si pensa alle Hawaii la prima immagine che arriva alla mente sono sicuramente le incantevoli spiagge di sabbia bianca che si affacciano sul un mare cristallino, ornate di palme in cui fare stupende nuotate.

E’ proprio così: rimarrete senza parole di fronte alle meravigliose spiagge di Maui, bellissime e dai colori pazzeschi. Ma vi assicuro che non tutte le spiagge sono uguali e non tutte sono adatte per tutti i turisti.

Non mi credete? Al vostro arrivo in aeroporto, vi faranno vedere un video, al ritiro bagagli, proprio sui pericoli e sulle insidie del mare. Perché alle Hawaii e anche a Maui, il mare è tanto bello quanto spesso insidioso. Occorre prestare molta attenzione, specialmente con i bambini.

Così ho pensato di raccontarvi le diverse tipologie di spiagge di Maui fra cui potrete scegliere: da quelle più indicate alla balneazione a quelle imperdibili per il paesaggio da cartolina ma caratterizzate da correnti pericolose, dalle baie protette e perfette per lo snorkeling ai litorali ricercati per il surf con le grandi onde da cavalcare.

Chiara di www.viaggiamondo.it

Un altro pazzo viaggio

Ciao a tutti, con il nuovo anno penso che riuscirò a far uscire il mio nuovo libro. Questo come il precedente è ambientato negli USA. Questa volta si cambia andremo ad est. Vi racconterò il mio viaggio tra la costa atlantica e i grandi parchi del sud est. Qui vi lascio un estratto preso proprio dall’introduzione.

“Sull’aereo tornando dalla California già pensavo al prossimo viaggio.  La fantasia mi portava in luoghi lontani anche esotici e abbastanza diversi dagli USA: il Giappone, il Perù, l’Australia, il Sud Africa, il Madagascar, il Namibia e la Cina.  Conoscere nuovi luoghi da una parte mi cominciava ad affascinare e ad eccitare. Vedere il mondo da un altro punto di vista poteva essere un’esperienza indimenticabile. Quel punto di osservazione magari poteva essere non nell’emisfero boreale che tanto conoscevo. Forse era giunto il momento di vedere il mondo a “testa in giù”. Andare in quell’emisfero australe tanto letto e sognato in vari libri, ma mai visto con i miei occhi. Avrei potuto visitare bellezze naturali famose e anche alcune meno famose, ma altrettanto meravigliose. Inoltre, sarebbe stato sicuramente molto interessante conoscere nuove culture, nuovi usi e costumi e perché no anche qualche nuovo piatto tipico.  

Certo, sarebbe stato stupendo e oltremodo formativo, sia dal punto di vista culturale che dal punto di vista emotivo, ma rimase una mera ipotesi. Rimase un desiderio, una fantasia, un’idea, ma non diventò realtà. Questo perché  la nostalgia, il  cosiddetto “mal d’America”, parafrasando il ben più famoso “mal d’Africa”, e la voglia di visitare tutti gli stati degli USA erano fortemente preponderanti. Non viaggiavo per il gusto di mettere “bandierine” sul territorio visitato della città X e del paese Y del nostro fantastico pianeta, come se stessi giocando ad una versione pacifista di Risiko, in cui invece di conquistare un territorio per aggiungere la bandiera sulla mappa, bastava, per così dire, visitarlo. Non avevo bisogno di grattare quelle cartine geografiche in cui ogni volta che visiti un paese levi via la patina dorata su di esso. Come se poi per vedere, che so la Francia, bastava vedere Parigi. L’ho sempre ritenuto un discorso alquanto limitato. Per conoscere uno stato bisogna visitarlo un po’. Non solo la capitale e non solo vedere i luoghi turistici.”

Se volete sapere come va a finire non dovrete fare altro che aspettare l’uscita del libro, che spero sarà per questa primavera, intanto vi ricordo che potete acquistare il mio vecchio libro a questo link:

https://amzn.to/31dFwt8

Inoltre non dimenticate di seguire anche la nostra pagina:

http://www.facebook.com/inostripazziviagginegliusa

A presto.

Alessandro – I Nostri Pazzi Viaggi Negli USA

Tutto è possibile col sole ed un tocco di rosa

Il mese scorso vi avevo lasciato con la storia controversa del marchio Lululemon e del suo imbarazzante CEO.
Questo mese continuo a parlare di moda, ma questa vi racconto la bella storia anni ’50 di un brand che rappresenta tantissimo la Florida, Lilly Pulitzer.

Provenienti dall’alta società di New York, i coniugi Pulitzer si trasferirono nel South Florida giovanissimi, dopo un matrimonio celebrato di nascosto alle famiglie. Peter Pulitzer possedeva delle coltivazioni di arance nella zona di Palm Beach e la coppia divenne presto il fulcro della vita sociale locale.

(Se il nome vi ricorda qualcosa, è perché il nonno del marito, da cui ha acquisito il cognome, è proprio QUEL Signor Pulitzer da cui prende il nome QUEL premio Pulitzer)

La loro casa era sempre piena di gente, party informali, bambini e animali. Oltre a cani e gatti, infatti, ospitavano anche una scimmia e un vitello. In seguito a una grave depressione post partum, che le costò anche un ricovero in ospedale psichiatrico, il medico consigliò alla giovane Lilly di trovare un hobby che la tenesse impegnata e così aprì un chiosco in cui vendeva succo di arancia. Tuttavia, le arance, quando spremute, tendevano a macchiare i vestiti per cui chiese a un’ amica, Laura Clark-ex editor di Harper’s Bazar- di aiutarla a trovare una fantasia che potesse mascherare le macchie di frutta. Assieme a Laura e con l’aiuto della sua sarta inizio a produrre i propri vestiti, caratterizzati da una linea semplice e comoda (visto che lei stessa non sopportava di utilizzare indumenti intimi).

E le clienti del suo piccolo bar impazzirono per le sue creazioni.

Fu così che la regina dei party a piedi nudi, quella per cui la moda era una perdita di tempo, divenne in breve la regina della moda del South Florida.
Forse perché i suoi vestiti sono quasi senza cuciture, i tessuti naturali, per lo più cotone, forse perché i colori dei suoi capi gridano estate, spiaggia, vacanze e cocktail in riva al mare, ma la sua l’iconica fantasia a colori fluo è, ancora oggi, la firma indiscussa di questa marca e il simbolo della Florida.
Probabilmente, ad aiutare l’ascesa della stilista nel mondo del Jet Set ha contribuito anche il fatto che una delle sue più grandi estimatrici era la ex sua compagna di scuola, Jackie Bouvier, al secolo Jaqueline Kennedy.
I gruppi facebook di Historical Florida pubblicano continuamente fotografie d’epoca della First Lady in visita al negozio Lilly Pulitzer di Palm Beach o di Key West, che non mancava mai di visitare quando veniva a trascorrere le vacanze nella tenuta di famiglia a Palm Beach.


I vestiti di non salvarono la vita a Lilly solo metaforicamente, aiutandola ad uscire da un periodo buio della sua vita, ma la salvarono anche letteralmente.

Mentre raggiungeva Key West con la sua amica e socia Laura Clark, il loro aereo ebbe un’avaria e finirono nelle acque di Marathon, infestate dagli squali.
La sua amica non si perse d’animo, si levò la maglia dai colori sgargianti e la utilizzò per segnalare la loro presenza ai soccorsi.
La stilista, anni dopo, ricordò la storia sulle pagine di Vanity Fair, col sorriso sulle labbra – nonostante la gran paura che doveva aver auto al momento – affermando che, sebbene Laura desse merito del salvataggio ai colori accesi della maglia, lei era certa che fossero state notate di più per l’anatomia femminile in bella vista.

Nel 1969, improvvisamente, Lilly divorzia dal marito, si separa dalla sua socia che nel frattempo si era trasferita a Santa Barbara e si sposa con Enrique Rousseau, un cubano sfuggito alla crisi dello zucchero che si era reinventato come costruttore per le famiglie abbienti di Palm Beach, con cui passerà il resto della vita (di lui), abbracciando la filosofia di vita cubana, occupandosi lei stessa della casa, della cucina e degli affetti.
Ma gli anni ’80 non furono generosi con Lilly Pulitzer. La moda di Calvin Klein e Donna Karan diede un grosso colpo al business e nel 1984 dichiarò fallimento, facendo ritirare Lilly in pensione. Al suo funerale, nel 2013, la chiesa di Palm Beach era un tripudio di fantasie Lilly Pulitzer, in omaggio alla stilista.

Nel 1994 Bradbeer, presidente della Sugartown Wolrdwide e il suo socio Scott Beaumont acquistarono da Lilly la proprietà del marchio, un simbolo della loro infanzia. E, da allora, i colori di Lilly Pulitzer sono tornati a brillare addosso alle donne del South Florida, come simbolo delle vacanze, del mare e del divertimento e in negozi Lilly Pulitzer sono una macchia colorata nelle strade dello shopping delle più importanti città (almeno qui in Florida 😀 )

Se avete voglia di leggere l’articolo integrale di Vanity Fair, qui c’è il link
Se avete voglia di leggere qualcosa di più su quegli anni, in cui il jet set di New York si divideva tra la grande mela e Palm Beach, tra feste mondane, diete dimagranti e figli in collegio, vi consiglio la lettura de “I cigni della quinta strada” di Melanie Benjamin che ripercorre la vita di Truman Capote e delle icone di stile degli anni 50.

La ricetta del mese: Rotolo meringato ai frutti di bosco

Per restare in tema con l’estate, la freschezza e i colori (della frutta), vi consiglio un dolce davvero MOLTO interessante.

Intanto, potete utilizzare albumi che avete congelato, avanzati da altre preparazioni. In più, può essere fatto in meno di un’ora, riposo escluso, e, in mancanza di tempo o di manualità può essere assemblato in una pirofila. La base della ricetta viene da un bestseller di Ottolenghi, ma ho riadattato la ricetta levando gli ingredienti troppo esotici e sostituendo ai soli lamponi un mix di frutti di bosco.

Rotolo Meringato ai Frutti di Bosco

Per la meringa

  • 4 albumi d’uovo (circa 120g, ma pesateli e fate il doppio di zucchero)
  • circa 250 g di zucchero, pesate gli albumi e regolatevi
  • 1 cucchiaino di estratto di vaniglia
  • 1 cucchiaino di aceto bianco o di cremor tartaro
  • 1 cucchiaino di amido di mais

Ripieno

  • 100 g di mascarpone
  • 2 cucchiai di zucchero a velo
  • 400 g di panna da montare fresca
  • 200g di frutti di bosco misti o lamponi

Accendere il forno a 315F o 150°C statico
Coprire il fondo e i bordi di una teglia per dolci (33×24) con carta forno. Per farla aderire meglio, bagnatela con acqua calda, strizzatela e spianatela sulla teglia. Non serve imburrare, al massimo potete spruzzare con un velo di staccante per torte.
In una ciotola ampia e perfettamente pulita cominciare a montare gli albumi, quando iniziano a essere sostenuti , unire lo zucchero a cucchiaiate, l’aceto o il cremortartaro e la maizena, poco alla volta, continuando a montare, finché non si ottiene una meringa lucida e compatta.
Usando una spatola a gomito o il retro di un coltello da pane, stendere la meringa sulla teglia preparata in un rettangolo in più possibile uniforme.

Cuocere in forno per 30 minuti, finché si forma una sottile crosticina e la meringa è abbastanza cotta. Ad una leggera pressione sarà comunque ancora morbida ma asciutta. Controllate che non prenda troppo colore, deve restare più bianca possibile.
Togliere dal forno e lasciarla raffreddare per circa 10 minuti nella teglia.
Rovesciare la meringa fredda su un foglio di carta-forno pulito, e togliere delicatamente la carta-forno usata per cuocerla.

Nel frattempo preparare la crema.
Versare il mascarpone in una grossa ciotola, insieme allo zucchero a velo e iniziare a lavorarlo con le fruste. Piano piano aggiungere la panna a filo e continuare a montare
Controllare attentamente che non monti troppo, altrimenti la miscela si trasforma in burro, deve essere una crema sostenuta ma ancora lucida.

Spalmare 3/4 della crema sulla base di meringa, spargere i frutti di bosco sulla crema e, aiutandosi con la carta da forno, arrotolate lungo il lato più lungo.
Formare una caramella e avvolgerla in alluminio. Mettere in frigo per circa un’oretta almeno.
Scartare il rotolo, con molta attenzione appoggiarlo sul piatto di portata e, aiutandosi con un sac a poche, decorare la superficie con ciuffi di crema e frutti di bosco.
Lasciare in frigo fino al momento di consumarlo.

Se si vuole saltare la parte del rotolo, è sufficiente tagliare la lastra di meringa in 3 sezioni grandi come la vostra pirofila di servizio, coprire il fondo col primo strato, mettere crema e frutta, di nuovo meringa, un altro strato di crema e frutta, meringa e decoro. Lo strato centrale potete farlo con le porzioni di meringa che restano dopo aver tagliato le due lastre esterne a misura della pirofila.

Note:
E’ un dolce che rende meglio fatto e consumato in giornata, visto che la meringa tende a ammorbidirsi. Non lasciate passare più di 3-4 ore tra la preparazione e il consumo, per un risultato ottimale. Gli avanzi sono comunque buonissimi anche il giorno dopo, rispetto al meringato comune non rilascia acqua in frigo.

Come dicevo prima, è un dolce che permette anche di consumare l’eccesso di albumi da altre preparazioni, non richiede molti ingredienti strani, a parte il mascarpone.

Potete sostituire i frutti di bosco con qualsiasi altra frutta, anche una macedonia non acquosa: mango, fragole, pesche sode, giusto per menzionare le prime che mi vengono in mente.

Quello nella foto è, ovviamente, il mio. Giusto per non far venire ansia da prestazione a nessuno, è un dolce che non richiede nessuna precisione, la meringa tende a crepare durante l’arrotolamento. L’aspetto resta rustico, ma piace davvero a tutti

Enjoy!

Elena, Florida


Road Trip “Sognando la Florida”

Gli Stati Uniti d’America sono la partita dei Road Trip, o degli On The Road come preferiamo chiamali noi italiani.

Ma il senso del viaggio non cambia; si prenota il volo, si noleggia l’auto e iniziamo a sognare, già prima di partire.

Il classico Road Trip è quello nei parchi dell’ovest, dove si uniscono i Parchi Nazionali ad alcune delle città più famose come Las Vegas, Los Angeles o San Francisco, ma anche la costa est ha tanto da offrire.

Senza dimenticarci ovviamente New York City, Boston o Washington D.C. giusto per nominare alcune città, ma scendendo più a sud inizia una parte degli USA tra le più affascinanti e ricche di storia, dove sono nati generi musicali esportati in tutto il mondo e dove si raccontano storie infinite sulle radici stesse di questo immenso paese.

Le 13 colonie che oggi sono rappresentate dalle storiche colorate della bandiera americana, hanno visto la luce nella costa est e non poteva essere diversamente visto che gli europei sbarcavano qui prima di iniziare la conquista del Vecchio West.

Poi è arrivata la Route 66 e tuo ha preso un gusto diverso.

Ma torniamo per un attimo in Florida per un Road Trip che si snoda nel centro sud dello stato, dove le distanze sono più contenute e le attrazioni sono variegate: spiagge orlate di palme, mare cristallino, vivace vita notturna e parchi divertimento.

In questo Road Trip, viaggeremo anche alla scoperta di foreste tropicali, fiumi, paludi, spiagge vergini e selvagge, isole ricche di Natura e tanta storia.

Miami, le Everglades e Orlando, insieme a Tampa diventeranno indimenticabili ricordi, insieme a Key West resa famosa dallo scrittore Hemingway e dai sui gatti unici al mondo che abitano ancora oggi nella casa dello scrittore adibita a museo.

Un viaggio indimenticabile di cui vi racconto tutto in questo link, compresi luoghi dove mangiare e vivere emozioni uniche!

Badlands National Park, South Dakota: le “Mako Sica”, “terre impervie” degli Oglala Lakota

“Ero totalmente impreparato a quella rivelazione nel Dakota chiamata Bad.. Lands.

Quello che ho visto mi ha dato un indescrivibile senso di misterioso altrove: un’architettura lontana, eterea… un infinito mondo soprannaturale più spirituale dell’universo terrestre, eppure creato da esso.”

(Frank Lloyd Wright)

Le impressioni che il famoso architetto e designer americano ebbe durante la sua prima visita delle Badlands rendono a pieno l’idea delle emozioni e delle esperienze che questo affascinante e remoto parco nazionale statunitense, situato nel cuore più selvaggio del South Dakota, è in grado di regalare ai suoi visitatori.

Territorio ancestrale degli Oglala Lakota, la fiera nazione nativa che lo popolò da tempi antichissimi e che gli conferì per prima il nome di “Mako Sica”, ovvero “terre cattive”, per via dei suoi luoghi aspri, infruttuosi e selvaggi, e di conseguenza dimora designata di leggende, spiriti e divinità di un universo lontano, divenuto oggi uno dei paesaggi più emozionanti e suggestivi del South Dakota.

Provate ad immaginare rocce fossili, calanchi e pinnacoli color cipria che col passare delle ore del giorno assumono le più incredibili sfumature di rosa, beige ed oro, raggiungendo il loro apice al tramonto, ed ancora praterie e vallate con un’incredibile storia ed evoluzione geologica, e poi loro, i veri grandi protagonisti del parco, i maestosi bisonti, le antilopi, i prairie dogs, simpatici cani della prateria, i furetti dai piedi neri, le longhorn sheeps le imponenti pecore dalle lunghe corna, e tante altre specie uniche.

Un sito dal profondo valore storico, naturalistico, paesaggistico e geologico che da solo merita un viaggio tra North & South Dakota, nel Great American West!

Badlands National Park, South Dakota: cosa vedere e fare

Il Badlands National Park si sviluppa su quasi 1000 km2 ed è suddiviso in due sezioni distinte.

La North Unit, gestita direttamente dal National Park Service, è la parte più visitata con la Badlands Loop Scenic Byway, la Badlands Wilderness Area ed i migliori trail e sentieri escursionistici, mentre la South Unit, o Stronghold District, più a sud, che include il Red Shirt Table, il punto più alto del parco, è ad oggi ancora inglobata nella Pine Ridge Oglala Reservation e gestita direttamente dagli Oglala Lakota. E’ importante sapere che in quest’area non ci sono sentieri escursionistici né i servizi di un parco nazionale, le strade non sono asfaltate ed i percorsi da effettuare sono molto più impervi ed accidentati. Occorre quindi prestare molta attenzione ed avere un’adeguata preparazione fisica ed organizzativa nel caso si decida di esplorarla.

L’accesso alla North Unit si trova a ridosso della I 90, su cui ha due ingressi distinti, The Pinnacles Entrance, nei pressi della cittadina di Wall, uscita 110, e la Northeast Entrance, all’uscita 131.

Se invece si proviene dalla Pine Ridge Reservation e dalla South Unit, allora il consiglio è quello di imboccare a Scenic l’Hwy 44 ed entrare nel parco attraverso – consigliatissimo un stop qui – il Ben Reifel Visitor Center.

La Badlands Loop Scenic Byway è la Scenic Route che in circa 45 km attraversa buona parte della North Unit da Pinnacle Entrance alla Northeast Entrance, toccando tutti gli overlook – come il Big Badlands Overlook, l’Homestead Overlook ed il Pinnacles Overlook – e gli accessi ai trail.

Tra i trail da non perdere: Door Trail,Window Trail, Notch Trail, Castle Trail, Cliff Shelf, Saddle Pass, Fossil Exhibit Trail e Medicine Root Loop.

La Bandlands Loop Scenic Byway è percorribile in auto, con brevi soste agli overlook, in un paio d’ore circa. Ma se si vuole godere a pieno della magia, dei trail, delle esperienze e degli “incontri” che il parco è in grado di offrire, allora il consiglio è quello di prevedere almeno un paio di pernottamenti, tra la cittadina di Wall ed il Cedar Pass Lodge, che si trova all’interno del parco, alle spalle del Ben Reifel Visitor Center, per vivere l’intera area all’alba ed al tramonto (i momenti più suggestivi) e per riuscire ad ammirare bisonti, pecore longhorns ed altri animali che, soprattutto nei mesi più caldi, tendono ad uscire dalle radure proprio ad inizio e fine giornata, quando le temperature si fanno più miti.

Il Badlands National Park è aperto tutto l’anno – verificate sempre sul sito ufficiale gli orari di apertura e chiusura in base alle stagioni ed alle condizioni meteo – ad eccezione del Thanksgiving Day, Natale ed il primo giorno dell’anno.

L’accesso è incluso nel pass America the Beautiful, diversamente il costo per auto è di 30$.

Per ulteriori informazioni in merito alla visita del Badlands National Park e dei suoi dintorni vi invito a leggere – cliccando qui – un articolo-guida estremamente dettagliato utile ad organizzare al meglio la vostra visita e a saperne qualcosa di più sulla fiera cultura nativa originaria proprietaria dell’intero territorio, gli Oglala Lakota.

Simona Sacri Travel Writer