Il mese scorso, mia moglie ha finalmente ricevuto la convocazione per la “Naturalization Ceremony”, ossia la tanto attesa cerimonia di riconoscimento della cittadinanza americana.

Tanto attesa non solo perché ci sono voluti quattro anni prima di ottenerla, ma anche perché, prima a causa della pandemia, e poi a causa dei disordini nazionali susseguiti all’elezione del nuovo presidente Biden, le varie tappe burocratiche previste (esame e cerimonia) si sono inceppate, sono slittate e sono state rimandate più volte, per motivi di sicurezza.
Insomma, ce la siamo dovuta sudare più del previsto. E non è solo un modo di dire. Perché noi riusciamo poi sempre a metterci la ciliegina sopra, per rendere tutto più deliziosamente fantozziano.
La cerimonia di naturalizzazione col COVID
Pochi giorni prima della data dell’appuntamento, Viviana ha ricevuto comunicazione ufficiale dall’Ufficio Immigrazione di presentarsi da sola, poiché, ahimè, a causa del Covid, non sarebbero potuti entrare accompagnatori di nessun genere e grado.
Nella lettera, si elencavano poi anche tutta una serie di obblighi, come quello di indossare la mascherina prima di entrare, o divieti, come quello di presentarsi in caso di qualsiasi sintomo sospetto, fosse stato anche solo un banale colpo di tosse, scappato dopo aver aspirato per sfiga del cacao dal Tiramisu.
Un vero peccato, per un evento tanto importante, aspettato e desiderato.
Unico, nella vita di una persona.
Ci siamo dunque rassegnati: l’avrei accompagnata – senza le due piccole pesti – e aspettata in macchina.
Ecco perché non mi sono preoccupato, quando, giunto davanti all’edificio dell’appuntamento, ho trovato solo parcheggi a sosta temporanea: ho fatto scendere la Vivi, che è corsa dentro al palazzo e ho parcheggiato dalla parte opposta della strada.
Mi son messo ad aspettare tranquillo, quando, all’improvviso, ecco accadere l’imponderabile.
Imponderabile che si paleserà nel post “Viviana, cittadina americana!” Clicca per continuare a leggere.
Pietro, Provenzano’s blog