Baltimore: cosa abbiamo imparato da una città a prevalenza afro-americana

Quando ci siamo trasferiti negli Stati Uniti più di sedici anni fa, le uniche cose che sapevamo della nostra città di destinazione, Baltimora, erano che si trattava di una città di medie-grandi dimensioni della costa atlantica, storica, vicina a Washington, sede di un importante ospedale e per la stra-grande maggioranza “nera”. Non sapevamo ancora all’epoca che svettava in cima alle classifiche per maggior numero di omicidi, ma ce ne siamo resi conto abbastanza presto non appena siamo sbarcati, nel momento in cui, nel cercare casa, siamo stati messi davanti ad una mappa della città e con una penna rossa ci sono stati segnalati, con dei grandi cerchi con una croce in mezzo, i quartieri “off-limits”: praticamente, di fatto, quasi tutta l’aere urbana. C’erano delle piccole anse, fra un cerchio e l’altro, che rimanevano in città ma erano vicino a istituzioni “sicure” come l’università, la zona dei ristoranti, i musei e di fatto è lì che poi abbiamo deciso di stabilirci per i primi tre anni. All’epoca, come quasi tutti gli italiani della nostra generazione, non avevamo nessuna familiarità con la cultura afro-americana (se non indirettamente attraverso i film, la musica e la televisione) ed anzi, eravamo un po’ esitanti ad avventurarci per questi quartieri, come tutti quelli che sono cresciuti in una cultura omogenea bianca. Nello stesso tempo mi rendevo conto però quando andavo in giro che ovviamente non c’erano molte differenze fra i blocchi “bianchi” e i blocchi “neri”, mi pareva tutte vie storiche identiche. Anzi, le zone “nere” sembravano più vive, la gente camminava per strada come siamo abituati noi in Europa, sembrava più “calda”, accogliente… tanto che il primo asilo che abbiamo trovato disponibile per la nostra bimba (a differenza di tutti quelli che ci erano stati raccomandati nelle “zone ok”, che ci hanno uno per uno rimbalzato) era in una scuola, il YMCA, nuovissimo e comodissimo, dove lei era l’unica bambina bianca della sua classe.

Non sapevamo all’epoca che la storia della città di Baltimore degli ultimi 60 anni è strettamente legata a questo contrasto razziale che ha fortemente emarginato la comunità afro americana, a questa non-integrazione voluta esplicitamente dai developers e gli amministratori cittadini che implementarano il famoso redlining per non turbare le famiglie bianche che decidevano di rimanere in città al posto di scappare nella suburbia con il loro American dream degli anni ’50. Che le famose proteste del 1968 nate proprio per denunciare questa segregazione, ebbero invece esattamente quel risultato, perché il centro delle città divenne così meno sicuro e fece sì che la fascia della popolazione da sempre più povera e più vulnerabile rimase completamente abbandonata a se stessa. Non sapevamo che prima di quel periodo c’erano state figure storiche importantissime che sono passati da questo stato e hanno contribuito all’emancipazione degli afro-americani come l’avvocato nero abolizionista Frederick Douglass (diventato quasi un’icona pop immortale anche per il suo “afro”), del quale vedevamo targhe ovunque, o Harriett Tubman che attraverso la sua Underground Railroad liberò durante la guerra civile americana moltissimi schiavi dell’Eastern Shore (a pochi kilometri da Baltimore). Ogni volta che prendevamo l’aereo poi, lo facevamo dall’aeroporto dedicato a Thurgood Marshalls, che, discendente diretto da avi che lavoravano nelle piantagioni di cotone, fu il primo e storico giudice nero della Corte Suprema. Ignoravamo che per far conoscere ai ragazzi delle scuole queste persone fondamentali per la storia americana c’è, grazie al Presidente Gerald Ford dal 1976, un mese del calendario a loro dedicato, febbraio -ironicamente però il più corto dell’anno: il “Black History Month“, che con iniziative e progetti ripercorre la lunga battaglia degli americani neri durante e soprattutto dopo la loro ufficiale liberazione dalla condizione di schiavitù. I primi tempi, quando le nostre figlie dovevano compiere le loro piccole ricerche a scuola, mi sembrava quasi eccessivo o addirittura offensivo per loro dedicare un mese alla diffusione delle storie di questi americani, ma poi negli anni ho capito che questo era stato davvero un traguardo importantissimo, a meno di trent’anni dalle marce di Selma i discorsi di “I have a dream” di MLK e la firma dei pari diritti civili ai cittadini di colore, e che ha sicuramente contribuito all’idea di un’America non più segregata, dove i neri potessero avere accesso a tutte le opportunità che hanno i bianchi. Purtroppo siamo ancora lontani da quella che oggi sembra ancora un’utopia.

Il problema è ben più complesso e non si cancella con i poster e i buoni intenti del Black History Month, ed infatti Baltimora, come tante grandi città dell’est e midwest degli Stati Uniti in cima alle classifiche delle città più povere, rimane per molti “da evitare” nei giri turistici -nonostante i tantissimi monumenti storici, la bellissima posizione sulla baia e le istituzioni di fama mondiale- e ignorata dai politici nazionali (famosa la frase di Trump che l’anno scorso la definì città “disgustosa e infestata di ratti”). E noi non ne sottovalutiamo i problemi e le sfide. Ma questo grande mess che è ancora la nostra Charm city (così chiamata dai suoi abitanti), rispecchiato anche nei numerosi scandali ai vertici municipali che hanno infierito ancora di più sulla sua gente, è sempre andato in contrasto con il nostro graduale ma intenso innamoramento per questa città, tanto che nel momento in cui, nel 2015, sono scoppiate le rivolte in strada per la barbara uccisione di Freddie Gray, e che di fatto rappresentava i primi movimenti di protesta di Black Lives Matter, ci siamo sentiti di scendere in piazza e manifestare fianco a fianco dei nostri concittadini. Così un giorno ho deciso di documentare questi cortei con la mia macchina fotografica, anche e soprattutto per testimoniarne la pacificità -e ad oggi rimangono fra le foto che sento più vicine a me (dopo quelle alla mia famiglia)! Le potete vedere qua. La stessa cosa si è ripetuta ahimé dopo cinque anni quest’estate (vi metto il link qui del secondo album) dimostrando che la battaglia per la vera equità socio-economica delle persone di colore è ancora lunga e nonostante ci sia stato un presidente nero gli echi della separazione e del razzismo atroce che ha distrutto intere generazioni di americani neri, continuando a calpestarne i diritti anche negli anni recenti, è tutt’alto che compiuta. Pensavamo anche noi ingenuamente che l’elezione di Obama avesse quasi posto fine a questa lunga marcia, ma purtroppo è stato solo uno delle tante figure politiche e sociali che hanno avvicinato il divario delle minoranze con la cultura predominante “bianca”, che negli ultimi anni ha avuto l’occasione di sostenere a gran voce ancora la sua bieca e intollerabile “supremazia razziale”.

Noi lasceremo presto Baltimora, e qua rimarrà un pezzo del nostro cuore (ne scriverò ancora) ma vi consiglio se potete di leggere le storie degli afro-americani di questa zona perché parlano di tanti aspetti della nostra America: non solo propriamente i progressi che sono stati fatti verso l’idea dei padri fondatori di una more perfect union ma anche di valori universali come la resilienza, il coraggio, la dignità, la speranza: un insegnamento umano per tutti.

Elisabetta Girardi

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