Lasciare il proprio Paese è una scelta spesso cercata, voluta o quanto meno consapevole. Si valutano i pro e i contro, si esaminano i possibili scenari, si programmano le varie fasi cercando di prevedere il prevedibile, si dice addio molto prima dell’effettiva partenza. Siamo adulti, insomma, quindi siamo in grado di abituarci all’idea, sappiamo quello che lasciamo e ci illudiamo di conoscere anche quello che troveremo una volta stabiliti nel nuovo Paese. Per farla semplice, decidiamo noi, più o meno.
Se, però, al seguito abbiamo dei figli, allora tutto può cambiare.
Quando abbiamo lasciato l’Italia, nostro figlio Leo era un tredicenne molto tranquillo, studioso, già grande per la sua età. Abbiamo maturato la scelta di partire cercando di coinvolgerlo il più possibile, perché sembrava reggere qualsiasi imprevisto, pareva possedere già una struttura solida, una razionalità e una capacità di adattamento tali, che in pratica siamo stati noi ad aggrapparci a lui nei momenti iniziali.
Quando l’adolescenza gli è scoppiata sotto la pelle e nelle sinapsi, per noi genitori è stato come svegliarci durante un terremoto. Da che si era sempre dichiarato grato dell’opportunità di crescere e studiare negli Stati Uniti, Leo ora ci accusava di avergli tolto tutte le sue sicurezze, le amicizie, i suoi nonni, la sua vita. Una lingua seminuova, che spesso tradiva le aspettative della sua mente vivace, creativa e complessa, era diventata una barriera a costruire rapporti solidi, a stabilire confidenza e fiducia con i suoi pari. L’eccitazione per la novità e per la scoperta si era trasformata in insofferenza e indolenza. E la litania era sempre la stessa: è tutta colpa vostra.
Cacchio.
Cosa diavolo avevamo combinato?
Ce lo siamo chiesti centinaia di volte, io e mio marito. Nel migliore dei casi, abbracciandoci e dandoci risposte costruttive, nel peggiore, con una litania simile: è tutta colpa tua.
Eppure, oggi che Leo è un diciassettenne guascone, pieno di buoni amici e di sogni, posso dire con una buona dose di sicurezza che è stata una fase. Come sempre capita nella vita, niente dura per sempre, e anche quello tsunami di risentimento, dopo aver sconquassato qualche giornata, qualche settimana, qualche mese, si è ritirato in silenzio.
Ma non è stato facile per nessuno. E anche io ho dovuto imparare a vivermi il mio bambino che non era più un bambino, ho imparato a vedere la sua sofferenza e il suo dolore senza lasciarmi travolgere, ho trovato il modo per ricostruire dove lui distruggeva. E, se devo fare un bilancio, posso dire che non è andata male. Ve lo racconto qui…
Antonella, Io me ne andrei – Cronache di una milanese in Texas